Mercato del lavoro e vacanza mentale
Il salario minimo non è il rimedio al lavoro mal pagato. Pur con l’occupazione in crescita, la partecipazione al lavoro in Italia è ferma ad oggi al 65%
| Economia
Mercato del lavoro e vacanza mentale
Il salario minimo non è il rimedio al lavoro mal pagato. Pur con l’occupazione in crescita, la partecipazione al lavoro in Italia è ferma ad oggi al 65%
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Il salario minimo non è il rimedio al lavoro mal pagato. Pur con l’occupazione in crescita, la partecipazione al lavoro in Italia è ferma ad oggi al 65%
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Il salario minimo non è il rimedio al lavoro mal pagato. Pur con l’occupazione in crescita, la partecipazione al lavoro in Italia è ferma ad oggi al 65%
Non solo per il regionalismo differenziato si è scelto di allontanare la palla puntando al fischio dell’arbitro, è capitato anche con il salario minimo. In questi e altri casi non c’è però nessuna buona ragione per mandare il cervello in vacanza. La pausa dei lavori parlamentari dovrebbe servire, semmai, per ragionare su princìpi e finalità.
Il salario minimo, ad esempio, non è il rimedio al lavoro mal pagato. Chi lo sostiene sta soltanto facendo propaganda. Si prenda l’esempio della Germania e si ricordino le reazioni italiane: all’inizio del millennio i tedeschi introdussero nel loro ordinamento del lavoro i mini-job, ovvero occupazioni parziali con un salario minimo basso; da noi si strillò al sopruso e allo sfruttamento, mentre a qualcuno di noi capitava di sostenere che fosse una buona idea; passano gli anni e ora i tedeschi alzano considerevolmente il salario minimo, oltre la soglia di cui si discute in Italia; e da noi gli stessi che erano contro l’innovazione ora indicano l’esempio dell’innalzamento.
Sfugge loro che i piccoli lavori con bassi salari avevano la finalità di chiamare al lavoro due eserciti tradizionalmente assenti – le donne e i giovani – senza stravolgere le loro vite ma chiamandoli alla produzione e offrendo un’opportunità. Essendo quella la finalità e avendo avuto successo, ecco che la conseguenza sono salari più alti. Se prendi ad esempio i salari e cancelli il resto, ti capita quello che raccontava Esopo in una favola: gli animali piccoli osservarono quanto mangiavano quelli grandi e si proposero di diventare come loro mangiando quanto loro, così morendo.
A oggi, pur essendo l’occupazione in crescita (evviva, ma non sempre più occupati sono anche più ore lavorate), la partecipazione al lavoro in Italia è ferma nell’intorno del 65%, mentre in Germania è 12 punti più alta. Il nostro problema è farla crescere, non trovare il modo per mandarne fuori mercato alcuni pezzi.
L’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) ha reso pubblici dati relativi a come in Italia si trova lavoro. Perché si trova, ma gli strumenti che si usano dicono molto. La maggioranza, pari al 23,3%, lo ha trovato grazie alla segnalazione di amici e parenti; il 18,2% ha intravisto una possibilità e si è autocandidato; nel complesso questi canali informali, amicali, fatti di sentito dire e visto, procurano il lavoro nel 56% dei casi. Il 37% dei posti di lavoro viene occupato grazie a canali istituzionali e formali, ma in quello pesa un 10% che ha partecipato a concorsi pubblici (quindi, ancora una volta, che si è mosso di propria iniziativa).
I Centri per l’impiego, che sono pubblici, hanno nel carniere uno striminzito 4,2% dei contratti attivati, riuscendo a funzionare meno delle private Agenzie per il lavoro, che arrivano al 6,4%. Non soltanto, quindi, i preposti a cercare lavoro per altri non funzionano, ma se si disaggregano i dati si coglie l’orrore: a. in alcune regioni (come ha denunciato anche il ministro Giorgetti) i Centri per l’impiego sono a encefalogramma piatto; b. le Agenzie funzionano dove il mercato del lavoro (quindi quello della produzione) è più dinamico; c. l’arretratezza resta a marinare nell’arretratezza.
Ora osservate l’assurdo: mentre il governo di destra vara i più consistenti decreti relativi all’ingresso di immigrati – quindi i lavoratori (anche qualificati) si cercano all’estero – da noi i Centri sono regionalizzati e manca una banca dati nazionale dei posti liberi e delle persone che li cercano. Fortuna che amici e parenti sono più svegli.
Quella roba va smontata, non finanziata. Nell’era del digitale servono meno persone e più dati. E serve spingere i distretti produttivi a formare i collaboratori di cui hanno bisogno, semmai agevolando fiscalmente le assunzioni dopo la formazione, piuttosto che dare soldi a chi frequenta (se li frequenta) corsi che non formano.
Per quale mai ragione non se ne può discutere anche durante l’estate, anche a Ferragosto? Mandino in vacanza le demagogie, che mandarci la testa crea un precedente.
di Davide Giacalone
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