Il mercato del lavoro in Italia non diventi un tema ‘acchiappa clic’
Il mercato del lavoro in Italia non diventi un tema ‘acchiappa clic’
Il mercato del lavoro in Italia non diventi un tema ‘acchiappa clic’
Riconoscere maggior valore al lavoro è una delle chiavi della nostra epoca, ma il valore non può essere scisso (per convenienza politica, tornaconto personale, ansia di compiacere) dal talento, dalla formazione, dalla voglia di spostare i propri limiti un po’ più in là. Non ha senso invocare generici aumenti di stipendio, senza correre il rischio di innescare una terribile spirale prezzi-salari, paventata ieri dal governatore di Bankitalia Visco.
In questa delicatissima fase post (ci auguriamo) pandemia, gli stipendi sono esposti al rischio di un’erosione di lunga durata a causa dell’inflazione, tornata a livelli sconosciuti da decenni. In Germania sfiora l’8%, riacutizzando antichi terrori; in Spagna ha lambito il 10%; gli Stati Uniti hanno toccato punte da fine secolo scorso; in Italia è a 6,9%, dato più alto dal 1986: una realtà che incide direttamente sul potere d’acquisto dei lavoratori. In Europa l’inflazione è stata innescata dalla corsa dei prezzi delle materie prime. Realtà che pesa anche sui conti delle aziende, costrette a fronteggiare fluttuazioni impressionanti dei costi.
Pensare di proporre aumenti secchi di stipendio senza coordinare gli interventi di tutti i protagonisti – governi, rappresentanti dei lavoratori e dell’impresa, come ha suggerito a Torino l’economista Olivier Blanchard – significa volersi fare dei nemici e al contempo illudere le persone. L’impresa in Italia ha una sua forza a tratti sorprendente (per chi non la conosce), testimoniata dai dati del Pil di ieri a +6,2% su base annua, 0,4% oltre il previsto. Abbiamo tutto per far bene e ai lavoratori va spiegato che la rete di sicurezza del loro futuro passa da ciò che in Italia abbiamo incredibilmente dimenticato: formare. Vale per i giovani come per i più maturi.
Favoleggiamo di stipendi più alti quando abbiamo centinaia di migliaia di posti di lavoro scoperti e destinati a restare tali, perché le aziende non riescono a trovare personale qualificato. Perdiamo tempo in confronti social mentre la leva dei migliori stipendi, dei benefit più apprezzati dai giovani, del worklife balance viene già abbondantemente utilizzata in quella vera e propria guerra che si è scatenata per potersi accaparrare i talenti in circolazione. Sono così pochi (perché non li alleviamo), che le aziende farebbero di tutto per averli. Il dramma è rappresentato dalla massa di lavoratori che non risponde più a ciò che il mercato richiede, perché non qualificata o dequalificata dall’evolvere delle mansioni.
Si può scegliere di prendersela con le imprese, il capitale cinico e baro (del resto, solo pochi anni fa andava per la maggiore un partito che si divertiva impunemente a parlare di “prenditori”), ma questo è solo spettacolo a uso di telecamere e smartphone. Non è una condanna senza appello, purché si decida di parlare degli studenti e non dei professori, quando si affronta il mondo della scuola o dell’università. Ancora, se avremo la forza di cancellare l’idea della cattedra vita natural durante, sostituita dal principio della formazione e della valutazione continua per tutti, professori compresi. Se la finiremo con la sconfortante narrazione dello sfruttamento dei nostri ragazzi e ricominceremo a parlar loro di sogni e obiettivi.
È un tema culturale, prima ancora che normativo: genitori, insegnanti, opinion maker e capi devono avere la capacità di far capire ai più giovani che questa è un’era di grandi opportunità. Solo che – dettaglio non trascurabile – per coglierle è necessario studiare, sperimentare, accettare di sbagliare più di prima. Perché la competizione sarà sempre più elevata e si vincerà solo sul piano della competenza.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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