Perché l’Italia non riesce ad attrarre e integrare talenti
Abbiamo un problema: non riusciamo ad attrarre talenti internazionali né a garantire a chi arriva nel nostro Paese le competenze sufficienti
Perché l’Italia non riesce ad attrarre e integrare talenti
Abbiamo un problema: non riusciamo ad attrarre talenti internazionali né a garantire a chi arriva nel nostro Paese le competenze sufficienti
Perché l’Italia non riesce ad attrarre e integrare talenti
Abbiamo un problema: non riusciamo ad attrarre talenti internazionali né a garantire a chi arriva nel nostro Paese le competenze sufficienti
Abbiamo un problema: non riusciamo ad attrarre talenti internazionali né a garantire a chi arriva nel nostro Paese le competenze sufficienti
Abbiamo un problema: non riusciamo ad attrarre talenti internazionali né a garantire a chi arriva nel nostro Paese le competenze sufficienti per contribuire al miglioramento della competitività economica e produttiva. Secondo una recente indagine dell’Ocse, l’Italia è il fanalino di coda in Europa per competenze degli immigrati.
Alcuni punti chiave per fotografare l’attuale scenario, a partire dal declino delle competenze numeriche. Dal 2012 al 2023 i punteggi italiani sono diminuiti, arrivando a segnare un calo di 13,42 punti per gli immigrati da meno di dieci anni. Altrove – per esempio in Spagna e in Germania – le competenze degli autoctoni sono migliorate. In Italia restano basse sia per gli autoctoni che per gli stranieri. I circa 40 punti di divario fra autoctoni (248,46 punti) e immigrati recenti (208,74 punti) indica una scarsa integrazione.
Mettendo in luce il ruolo cruciale della famiglia di origine nei percorsi educativi, un’analisi sulle competenze cognitive degli adulti – realizzata dal gruppo di ricerca Piaac dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Anapp) – segnala proprio le difficoltà rilevanti affrontate dagli immigrati con genitori stranieri. Perché fatichiamo così tanto a integrare le competenze di chi proviene da fuori rispetto ad altri Paesi europei? «Su un piano politico, in psicologia esiste il “bisogno di appartenenza”». Lo spiega Agostino Portera, professore ordinario di Pedagogia generale e interculturale all’Università di Verona e direttore del Centro studi interculturali dell’ateneo scaligero. «Famiglia, amici, partecipazione alle istituzioni democratiche. Se questi elementi vengono negati, manca il sentirsi parte di una comunità, con effetti negativi sullo studio e sulla formazione».
Nonostante gli indicatori suggeriscano la necessità di investire sul sistema educativo e sulle politiche di integrazione, è anche vero che dagli anni Novanta a oggi la scuola italiana ha fatto enormi passi avanti. «Si è lavorato con un approccio interculturale basato sul dialogo, sulla crescita comune e non sulla segregazione. Manca però un’applicazione sistematica: abbondano leggi e regolamenti e scarseggia l’investimento sulla formazione degli insegnanti in questo campo» continua Portera. Non a caso – si legge in una ricerca della Fondazione Ismu – «l’incontro con insegnanti preparati alle diversità culturali è un elemento che facilita il successo negli studi degli alunni con background migratorio».
Su un altro piano, l’Italia presenta una bassa attrattività per gli immigrati più qualificati. Sebbene interessi molti Paesi europei, la gestione di nuovi arrivi caratterizzati da giovani poco istruiti è per l’Italia un problema più stringente. Questo a causa della bassa natalità e del bisogno di forza lavoro. «La buona accoglienza si fa non solo verso chi scappa dalle guerre, ma anche attraendo i talenti (ingegneri, infermieri, medici). Di cui abbiamo bisogno per essere più moderni e competitivi» sottolinea Portera. «Altri Paesi lo fanno da prima di noi, perché meno condizionati da atteggiamenti di chiusura. Cominciamo con l’attivare, anche nelle università, canali di selezione realmente internazionali per iniziare a smuovere una mentalità troppo diffidente».
Di Valentina Monarco
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