Previsioni e resoconti della Commissione Ue
Le previsioni della Commissione Ue, rese note ieri, mettono in conto un rallentamento della crescita in Italia ma non una recessione
| Economia
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Le previsioni della Commissione Ue, rese note ieri, mettono in conto un rallentamento della crescita in Italia ma non una recessione
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Le previsioni della Commissione Ue, rese note ieri, mettono in conto un rallentamento della crescita in Italia ma non una recessione
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Le previsioni della Commissione Ue, rese note ieri, mettono in conto un rallentamento della crescita in Italia ma non una recessione
Dall’ordine pubblico alle riforme costituzionali s’usa dire che il governo spara annunci allo scopo di distrarre dall’importante, vale a dire l’economia. Non condivido questa osservazione. Si può (come qui cerchiamo di fare) discutere nel merito le misure proposte e le intenzioni annunciate, ma non è vero che l’importanza di un problema cancelli gli altri.
I governanti odierni – che già ripetutamente e lungamente governarono in passato – al loro debutto, in consonanza con gli odierni oppositori, usano il tema economico dando per scontata la drammaticità del presente. Sbagliano. L’Italia viene da un triennio di crescita imponente, quanta non se ne vedeva da lustri. Quest’idea che il solo modo per dimostrarsi consci della situazione consista nel descriverla come catastrofica è fuori dalla realtà e non tiene in alcun conto la crescita della ricchezza, delle esportazioni e anche dell’occupazione.
Le previsioni della Commissione europea, rese note ieri, mettono in conto un rallentamento della crescita, ma non una recessione. Il Prodotto interno lordo Ue dovrebbe crescere dello 0,8% (rispetto all’1% prima previsto), per poi accelerare all’1,4% nel 2024. Il Pil dell’area dell’euro è previsto in crescita di un eguale 0,8% (rispetto all’1,1%). La stessa fonte prevede che anche quest’anno l’Italia crescerà (poco) più della media, con uno 0,9% (rispetto all’1,2%). Andiamo negativamente in controtendenza nel 2024, crescendo dello 0,8%, quindi rallentando ulteriormente.
Sempre ieri sono arrivati i dati Istat che segnalano, dopo il calo dell’occupazione, un decremento della produzione industriale pari a -2,1% su base annua. Il problema non è quel che si è trovato, ma quel che è maturato. Non sono i fatti a tradire il governo Meloni, sono le parole della propaganda di ieri a tradire la realtà. E vince la realtà.
Possiamo pure fare finta che tutto dipenda dall’umore di Paolo Gentiloni, ma per crederci si deve essere o molto ignoranti o molto sciocchi. Se taluni governanti (Salvini) lo attaccano è per rendere più difficile il lavoro di Meloni e Giorgetti. Se Meloni si allinea a quegli attacchi (in realtà ha provato ad annacquarli, senza riuscirci, poi rincarando con Ita, che c’entra nulla e le cose stanno diversamente) significa una cosa temibile: non quadrano i conti e ci si arrende alla verità del resoconto.
Si deve uscire dalla lagna perpetua dei mantenuti che reclamano sostegni e ristori e prendere a occuparsi dell’Italia produttiva. Che c’è e regge la baracca. Dice il ministro dell’Economia Giorgetti: «Se badiamo solo alla domanda e insistiamo a far fare allo Stato la parte del Re Sole che distribuisce prebende, sussidi e sovvenzioni, non andiamo lontani». Esatto, ma diverso da quanto promesso. La non-novità è che sfondare deficit e debito ci costerebbe più di quel che se ne potrebbe elargire.
Condizione drammatica? No. Perché se ragionassimo degli interessi italiani e non dei governanti che aspirano ai voti corresponsabili degli italiani, il debito pubblico dovremmo provare a farlo calare il doppio e il triplo di quel che la Commissione europea (senza troppo crederci) indica. Avremmo interesse a essere digitalizzati il quadruplo, a far funzionare la giustizia il quintuplo, ad avere una scuola formativa e selettiva il decuplo. Che non significa buttare i soldi pubblici nella ditta che fa il sito governativo ridicolo e non funzionante (appaltiamo semmai ai gestori dei siti porno).
Non significa pagare di più senza cambiare nulla, ma cambiare il necessario affinché si possa pagare meno e ottenere di più. E questa non è una condizione deprecabile, ma uno sforzo auspicabile. Solo che comporta la capacità di reinterpretare le forze politiche non come i colori cangianti della rancida zuppa sempre uguale – fatta di elemosine, risarcimenti, condoni e protezioni delle rendite parassitarie – ma come la tavolozza da usarsi per dipingere un futuro prossimo in cui il più popolare non sia quello che usa meglio il nero per promettere a tutti il soldo.
di Davide Giacalone
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