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Salone del mobile

Salone del Mobile di Milano, tra storia e futuro

Nei giorni del Salone del Mobile non si nascondano i problemi: aree del Paese rischiano di finire escluse dal futuro della nostra manifattura
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Salone del Mobile di Milano, tra storia e futuro

Nei giorni del Salone del Mobile non si nascondano i problemi: aree del Paese rischiano di finire escluse dal futuro della nostra manifattura
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Salone del Mobile di Milano, tra storia e futuro

Nei giorni del Salone del Mobile non si nascondano i problemi: aree del Paese rischiano di finire escluse dal futuro della nostra manifattura
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Nei giorni del Salone del Mobile non si nascondano i problemi: aree del Paese rischiano di finire escluse dal futuro della nostra manifattura

Si apre oggi il Salone del Mobile di Milano, giunto alla sua 61ª edizione meneghina. Non molti ricordano, infatti, che la sua grande storia partì in realtà negli anni Trenta da Monza, con esposizioni per l’epoca avanzatissime nei concetti abitativi e dalla qualità estetica senza pari. Pur nel soffocante conformismo politico e intellettuale del ventennio, un movimento già capace di far intuire la straordinaria specificità italiana nel settore. I riferimenti storici non sono fini a sé stessi, perché se oggi l’Italia è la capitale indiscussa del design e la nostra manifattura nel settore non ha eguali al mondo lo si deve a una scuola prestigiosa e antica. Forgiatasi in uno spettacolare connubio fra i più geniali studi di interior design (si direbbe oggi) e le botteghe in cui generazioni di artigiani-artisti si sono formati alla scuola dei loro “principali”.

Il design oggi è anche arte applicata al quotidiano e trova sempre più spazio in musei che sono dei viaggi nella vita giornaliera di quando eravamo bambini o in quella dei nostri genitori e nonni. Passeggiando nel nuovo Museo del Design della Triennale di Milano ci si imbatte in oggetti a noi assolutamente familiari: lampade, poltrone, sedie, telefoni, automobili, scrivanie, vasi, panchine, corrimani delle metropolitane che arredarono e arredano tutt’oggi le case degli italiani o gli spazi urbani. Elementi apparentemente ‘normali’, ma assurti alla dignità dell’esposizione nei musei. Pezzi di storia e di bellezza, di un’eleganza che è parte integrante della way of life italiana. Tutto questo s’innesta in un vero asset industriale, in un motore di ricchezza che va ben oltre la pur importantissima immagine del Paese nel mondo.

Ma di quale ricchezza e produzione stiamo scrivendo? Chiunque abbia un’idea anche superficiale di cosa sia il design italiano, sa perfettamente che ci stiamo riferendo a una fascia medio-alta, fino al lusso. Senza vergogna di citarlo. La nostra manifattura s’impone a livello globale in questo segmento specifico. Non possiamo puntare a far concorrenza ai cinesi o alle tigri del Far East. In tempi lontani lo facemmo, ma tollerando un amplissimo ricorso al mercato del lavoro illegale, grazie al cielo oggi inconcepibile. Solo che la qualità costa, in tutti i sensi: non solo al cliente finale, ma innanzitutto a chi produce e deve investire continuamente in ricerca e sviluppo, formazione di lavoratori ultra qualificati e sempre più difficili da preparare e reclutare. Concetti che non valgono certo solo per il settore del mobile, ma sono propri di tutta la manifattura italiana: dalla meccanica evoluta in meccatronica alla chimica e farmaceutica, dal food and beverageall’automazione, sino all’esclusivo settore della moda (in cui peraltro molto produciamo anche all’estero), possiamo continuare a vincere la sfida solo sul piano della massima qualità.

Proprio nei luminosi giorni del Salone del Mobile – con Milano gonfia di turisti attirati in fin dei conti da un settore industriale (caso più unico che raro al mondo) – non dobbiamo nascondere limiti e problemi. La qualità la si preserva con una formazione sempre più curata e di alto livello; i lavoratori poco formati finiranno per avere sempre meno peso economico e contrattuale, perché inadatti ai processi produttivi altamente specializzati. Meglio non negarlo per convenienza. Intere aree del Paese rischiano di finire escluse dal futuro della nostra manifattura, per carenza sia di imprese sia di maestranze e professionalità adeguate. I distretti più produttivi d’Italia chiedono con urgenza l’afflusso di manodopera straniera per tenere il ritmo della produzione e degli ordini. È un fatto che l’immigrazione interna di manodopera sia in costante diminuzione, mentre da Sud verso Nord continua ad aumentare il flusso di laureati e lavoratori più formati: se continuiamo con l’assistenzialismo, invece di fornire strumenti ai lavoratori, la stessa forza industriale del Paese finirà paradossalmente per spaccare ancora di più l’Italia. di Fulvio Giuliani

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