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SBV, in Italia nessun effetto domino semmai il problema è opposto

Nessun rischio che quanto accaduto negli USA con Silicon Valley Bank possa replicarsi in Italia, dove il problema vero è opposto: la difficoltà di accesso al credito delle start-up
I mercati non si fidano. Nonostante le rassicurazioni arrivino da più fronti e non siano solo verbali. Il fallimento della Silicon Valley Bank innervosisce le principali Piazze europee, con Piazza Affari che al momento registra le perdite più importanti. Una mattinata caratterizzata da una pioggia di vendite e sospensioni per eccesso di ribasso soprattutto nel comparto bancario. In caduta libera, poco prime delle 14, BPER Banca (-9,48%), BancoBPM (-8,59%), Mediobanca (5,68%), UniCredit (-8,01%) e IntesaSanpolo (-7,17%). Una reazione dei mercati che risponde più che altro a timori di carattere psicologico, basati sul fatto che tutte le economie del mondo ormai sono legate l’una all’altra. Ma è lapalissiano che quanto accaduto negli USA non potrà ripetersi anche qui. Per un semplice fatto: in Italia non esistono istituti di credito che, come la Silicon Valley Bank, lavorino quasi esclusivamente con le start-up. Semmai qui il problema è esattamente l’opposto. Nessuno, o meglio in pochissimi, credono nelle start-up. Ne abbiamo parlato con Christian Dominici. Commercialista e consulente, ha maturato un’esperienza con pochi eguali nel lavoro con le più  importanti banche retail e di secondo livello e ha seguito la nascita e la gestione di numerose start-up.  Dominici, abbiamo qualcosa da imparare dal fallimento della Silicon Valley Bank? Premessa: la Fed e il Tesoro americani hanno annunciato che copriranno i depositi degli investitori ed HSBC ha già perfezionato l’acquisizione della filiale UK. Tutto questo in un week-end. L’America rispetto all’Europa è un grandissimo acceleratore: si può diventare ricchi molto velocemente e altrettanto poveri. La finanza USA è avanti di 20 anni rispetto alla nostra. In questa vicenda specifica si faranno male in pochi anche grazie a queste decisioni prese in una notte. Cose che in Italia avrebbero richiesto mesi e mesi di discussioni. SVB era una banca che finanziava soprattutto le start up innovative della Silicon Valley. In questi anni c’è stato un grandissimo boom di realtà come queste: bastavano 10 ragazzi che si mettevano insieme, inventavano un nuovo prodotto e in poco tempo quell’azienda veniva valutata prima 5 milioni, poi 50, quindi 250 milioni. Abbiamo assistito a dei moltiplicatori assurdi. Da qui la corsa a finanziarle. Il problema di SVB è quello di non aver tenuto conto del rischio legato all’aumento dei tassi poiché aveva investito soprattutto in titoli cosiddetti lunghi. Una necessità dettata dal fatto che se investi in start-up, obbligatoriamente, hai bisogno di rendimenti più alti su quelli che sono i tuoi attivi. Non investi in t-bond come vengono comunemente chiamati negli USA. Solo che su 10 start-up che partono una sarà quella di successo, tre andranno così così e le altre 6 probabilmente falliranno. Con il rialzo dei tassi, le start-up già in crisi sono andate ancora più in crisi e hanno smesso di pagare il rimborso dei prestiti. Non serve essere degli esperti per capire che quanto accaduto in California, difficilmente, si potrà replicare anche in Italia. E’ così. Il modello per le fintech ha avuto diversi problemi in questi anni ma in realtà non è mai partito in modo efficace. Doveva essere veloce, come deve esserlo un’azienda appena nata, ma in realtà ci mette anni per andare a regime. Ed è questo il vero nocciolo della questione. Il nostro problema non riguarda tanto le banche bensì quello delle start-up e delle pmi, che rappresentano il tessuto sociale italiano e che qui non finanzia quasi nessuno. Per questo non esiste un effetto domino in stile SVB. Esiste invece il rischio che tante imprese che meriterebbero di spiccare il volo, non decollino mai. Perché molte di queste non sono bancabili, ovvero non riescono a trovare credito. Come mai le banche da noi fanno così fatica a dare fiducia alle nuove iniziative? Eppure gli italiani hanno dimostrato, ieri come oggi, di essere grandi inventori, innovatori, di essere bravi a fare le cose. Perché hanno ancora una visione ancora molto tradizionale del credito. Chi eroga i prestiti è condizionato da fattori obsoleti come gli anni di vita di una società e non riesce a valutare con la dovuta lucidità gli asset immateriali, figuriamoci un’idea.  Riassumendo è lecito dire che una start-up, come una pmi, debba contare solo sulle proprie forze in Italia? Non esattamente. Quelle poche che vengono finanziate dalle banche possono infatti contare su un credito garantito per l’80% dal Fondo di Garanzia medio-credito centrale. Importantissimo poi è il contributo che le persone fisiche possono dare a questo tipo di iniziative, anche perché va detto che fiscalmente presenta dei vantaggi importanti. Per esempio chi investe fino a 200mila euro in tre anni nelle start-up può risparmiare il 50% di quanto versato; allo stesso modo chi investe fino a un milione può detrarre dalle imposte fino a 300mila euro. Il tema vero – ora che il Governo sta rivedendo le detrazioni in ambito fiscali – è che si possa continuare così. Ne va del futuro delle start-up ma ancora di più delle pmi che hanno fatto crescere tante famiglie italiane. In generale, consiglio di essere più fiduciosi verso le start-up, senza farsi guidare dai pregiudizi. Il primo fra tutti? Pensare che dietro a queste società ci sia un manipolo di 20enni. Ho visto con i miei occhi realtà avviate da 50enni che, sfortuna loro, avevano perso il lavoro, ma che poi hanno saputo trasformare questo momento di difficoltà in un’enorme opportunità.        

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