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Spread

Sullo spread c’è poco da festeggiare

Lo spread non è (soltanto) un giudizio sul debito italiano. Il considerarlo tale induce a errori di valutazione e previsione

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Sullo spread c’è poco da festeggiare

Lo spread non è (soltanto) un giudizio sul debito italiano. Il considerarlo tale induce a errori di valutazione e previsione

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Sullo spread c’è poco da festeggiare

Lo spread non è (soltanto) un giudizio sul debito italiano. Il considerarlo tale induce a errori di valutazione e previsione

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Lo spread non è (soltanto) un giudizio sul debito italiano. Il considerarlo tale induce a errori di valutazione e previsione

Lo spread non è (soltanto) un giudizio sul debito italiano. Il considerarlo tale induce a errori di valutazione e previsione. Il rischio legato all’acquisto di titoli di un debito è sì legato al livello dell’indebitamento – in relazione alla velocità di crescita di una economia – ma anche al contesto in cui quel rischio dev’essere calcolato.

Come cercammo di sostenere già allora, all’epoca del default greco l’Italia non aveva altra ‘colpa’ che non quella di un debito troppo alto, ma non era cambiato nulla fra il prima e il dopo quell’evento: era cambiato il contesto ed era possibile scommettere sull’implosione dell’euro. Superata quella fase, il nostro debito è rimasto enorme ma lo spread è rientrato nei ranghi. Se però la patologia dello spread è drammatica, la sua fisiologia non è meno preoccupante.

L’Istat ha appena calcolato un aumento dello 0,1% (rispetto alle previsioni) del Pil 2023, portandolo a +0,9%. Ora si ritocca al rialzo, d’eguale misura, la previsione per il 2024. Allo stesso tempo, però, l’Istat ha evidenziato un imponente aumento del deficit 2023: dal previsto 5,3% all’abnorme 7,2%. Questo comporta quel che già sapevamo e abbiamo scritto, ma aumentandone la portata: le previsioni di deficit e debito 2024 (per quanto il secondo sia calato, complice l’inflazione) devono essere riviste.

In condizioni ‘normali’ questo sarebbe bastato a far crescere lo spread, mentre invece è calato. Nulla di misterioso: non soltanto nessuno scommette sulla fine dell’euro, che si dimostra solido, ma tutti vedono che la Commissione europea posticipa l’apertura, nei nostri confronti, di una procedura d’infrazione. Ci si rivede dopo le elezioni. Il che suggerisce che ci sarà un clima accomodante. Niente scommesse di crolli, niente picchi di spread. Tutto a posto? Manco per niente.

In un suo interessante studio, il professor Marco Fortis ha segnalato che l’Italia è l’unico dei grandi Paesi che – al netto degli interessi – ha fatto scendere il debito pubblico fra il 1996 e il 2023. Meglio di noi ha fatto soltanto la Germania, che pure lo ha visto crescere, sebbene di poco. Siamo quelli che hanno la più lunga e corposa serie di avanzi primari, ovvero di bilanci chiusi in attivo, prima del pagamento degli interessi.

La cosa è spesso citata come fosse una medaglia, laddove è un problema: significa che altri aumentano il debito per far spesa pubblica (più o meno efficiente, questo è un altro discorso), mentre noi la aumentiamo per pagare gli interessi, giacché al lordo di quelli continuiamo a essere costantemente in deficit. Significa che i soldi di quella spesa non vanno a scuole o sanità, ma agli investitori nel debito. Che solo in misura contenuta sono i cittadini (per circa 700 miliardi su circa 2.870), mentre per lo più si tratta di banche, di istituzioni finanziarie – italiane ed estere – e della Banca centrale. Il che comporta la destinazione di quei soldi al finanziamento del debito piuttosto che ai produttori di ricchezza. E non giova punto alla salute. Inoltre lo spread è oggi basso se misurato su sé stesso, ma resta il più alto all’interno dell’area dell’euro. Significa che non abbiamo la giugulare aperta, come in certe fasi, ma subiamo un’emorragia a un ritmo superiore a chiunque altro. Il che debilita e, alla lunga, ammazza.

A forza di considerare lo spread come fosse un giudizio su questo o quel governo (dimenticando che era molto alto sotto il governo Monti, che era stato chiamato per domarlo), ci si dimentica che misura anche il nostro progressivo indebolimento. Sicché mi sfugge cosa ci sia da festeggiare. Tanto più che l’incremento del deficit2023 si deve ai soldi buttati nel bonus 110%.

Morale: gli avanzi primari sono una virtù cui siamo obbligati, ma anche un modo per bruciare soldi del contribuente; se vogliamo uscirne dobbiamo imparare a mettere il resto dei soldi in quel che serve a far crescere il Pil a un ritmo che non richieda l’avanzo primario per contenere il debito e pagarne il costo. Il resto è una danza tribale di prede che si credono spreadate.

di Davide Giacalone

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