Il rebus del reddito di cittadinanza
La misura tanto desiderata dai pentastellati ha ridotto la disuguaglianza e il rischio di povertà. Ma, a fronte della spesa pubblica che richiede, presenta ancora tanti punti oscuri. A partire dai beneficiari: il 36% non è in situazione di povertà assoluta.
Il rebus del reddito di cittadinanza
La misura tanto desiderata dai pentastellati ha ridotto la disuguaglianza e il rischio di povertà. Ma, a fronte della spesa pubblica che richiede, presenta ancora tanti punti oscuri. A partire dai beneficiari: il 36% non è in situazione di povertà assoluta.
Il rebus del reddito di cittadinanza
La misura tanto desiderata dai pentastellati ha ridotto la disuguaglianza e il rischio di povertà. Ma, a fronte della spesa pubblica che richiede, presenta ancora tanti punti oscuri. A partire dai beneficiari: il 36% non è in situazione di povertà assoluta.
La misura tanto desiderata dai pentastellati ha ridotto la disuguaglianza e il rischio di povertà. Ma, a fronte della spesa pubblica che richiede, presenta ancora tanti punti oscuri. A partire dai beneficiari: il 36% non è in situazione di povertà assoluta.
Sono circa 1,5 milioni le famiglie che, nei primi sette mesi del 2021, hanno percepito il reddito di cittadinanza, cui si aggiungono 156mila famiglie beneficiarie di pensione di cittadinanza. Si tratta di 3,7 milioni di persone coinvolte con un importo medio mensile di 547 euro (579 per il reddito e 267 euro per la pensione). Guardando alla nazionalità, un’ampia maggioranza (85,6% a luglio 2021) dei percettori è di cittadinanza italiana.
La diffusione più marcata al Sud (dove il 12% delle famiglie beneficia del contributo, contro il 5% del Centro e il 3,2% del Nord) è legata sostanzialmente alle differenti condizioni socio-economiche che caratterizzano le diverse aree del Paese (la distribuzione del reddito di cittadinanza ricalca ad esempio quella della disoccupazione, della povertà relativa o del Pil). Se da un lato – insieme alla cassa integrazione – ha funzionato come strumento per ridurre la diseguaglianza (-1,2 dell’indice di Gini) e il rischio povertà (-0,8%), dall’altro sembra presentare ancora alcune criticità.
Secondo una recente analisi della Caritas, si tratta di un intervento non sempre in grado di intercettare le famiglie effettivamente povere; questo perché i requisiti richiesti per ottenere il reddito di cittadinanza sono diversi da quelli che definiscono la povertà assoluta. Il 36% circa delle famiglie che percepiscono il reddito non sarebbe in realtà povera in senso assoluto (come invece chi non riesce a sostenere la spesa minima necessaria per acquistare beni essenziali), mentre il 56% delle famiglie povere non fruisce del sostegno.
Nella maggior parte dei casi, i ‘falsi positivi’ (ovvero coloro che non sono poveri secondo la definizione Istat, ma rispettano i requisiti per ricevere il reddito di cittadinanza) sono famiglie poco numerose e del Mezzogiorno. Il patrimonio mobiliare è il requisito che più di tutti riduce l’accesso al reddito. Sono inoltre penalizzate le famiglie straniere e quelle più numerose (la scala di equivalenza ‘piatta’ penalizza i nuclei più numerosi).
Un altro aspetto critico è la sua efficacia come strumento di politica attiva del lavoro. A giugno, dei 1.150.152 beneficiari potenzialmente occupabili (ovvero soggetti al Patto per il lavoro), solo il 34% è stato effettivamente preso in carico dai Centri per l’impiego. I beneficiari soggetti al Patto per il lavoro sono spesso persone in situazione di particolare fragilità con basse probabilità di accesso all’occupazione. Soltanto il 37,8% ha maturato un’esperienza lavorativa negli ultimi due anni, e circa il 72% ha al massimo la licenza media.
Non è semplice capire quanti siano i percettori di reddito di cittadinanza che hanno trovato lavoro. I dati sono frammentari e non sempre aggiornati. Secondo una nota pubblicata a novembre da Anpal, il 25,7% dei beneficiari che complessivamente hanno ricevuto il reddito ha instaurato almeno un rapporto di lavoro (anche se non è chiaro se abbiano trovato occupazione grazie al supporto dei Centri per l’impiego), percentuale che scende al 14% se si considerano i soli contratti ancora attivi a fine ottobre 2020. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di esperienze lavorative a termine: il 65% dei percettori ha stipulato un contratto a tempo determinato, il 4,1% un contratto di apprendistato e solo il 15,4% un contratto a tempo indeterminato.
di Luca Ricolfi e Fondazione Hume
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