Nato in gabbia
La donna che nei giorni scorsi ha partorito sola nel carcere di Rebibbia non può non suscitare un moto di compassione e obbligare l’opinione pubblica a una riflessione sulle condizioni attuali delle detenute.
Nato in gabbia
La donna che nei giorni scorsi ha partorito sola nel carcere di Rebibbia non può non suscitare un moto di compassione e obbligare l’opinione pubblica a una riflessione sulle condizioni attuali delle detenute.
Nato in gabbia
La donna che nei giorni scorsi ha partorito sola nel carcere di Rebibbia non può non suscitare un moto di compassione e obbligare l’opinione pubblica a una riflessione sulle condizioni attuali delle detenute.
La donna che nei giorni scorsi ha partorito sola nel carcere di Rebibbia non può non suscitare un moto di compassione e obbligare l’opinione pubblica a una riflessione sulle condizioni attuali delle detenute.
Una detenuta ha partorito nel carcere di Rebibbia. Il fatto, a una prima lettura, potrebbe non indignarci: secondo un rapporto di marzo 2021 di Antigone, associazione per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario italiano, il 4.2% delle 2.250 donne presenti nelle carceri italiane avrebbe figli al seguito. Il caso di Rebibbia, però, racconta altro: è una storia di violazione e di abbandono. Secondo il Codice di Procedura Penale le donne in gravidanza non dovrebbero trovarsi in custodia cautelare in carcere. A maggior ragione se, come nel caso di questa ragazza, stanno affrontando una gravidanza a rischio. La detenuta protagonista di questa triste vicenda avrebbe addirittura partorito da sola, senza nessun tipo di assistenza medica se non l’aiuto della compagna di cella.
Il fatto è avvenuto a fine agosto ed è stato portato alla luce da Gabriella Stramaccioni, che a Roma è Garante delle persone detenute, e grazie alla quale è stata avviata un’indagine dell’Ispettorato sulla vicenda. Prima della condanna, però, secondo la ricostruzione finora avvenuta, le condizioni della donna erano ben note; il giudice ha comunque ritenuto fosse necessaria “l’applicazione della misura di maggior rigore” per Amra – questo il nome della donna – “perché soggetto a rischio di ritorno a delinquere, dal momento che non ha un lavoro e non ha indicato una dimora idonea a impedire la commissione di fatti analoghi”. Per essere stata colta in flagrante durante l’ennesimo furto di un portafoglio, “l’avanzato stato di gravidanza” non è stato preso in considerazione, così come la necessità di prendersi cura degli altri suoi tre figli, di cui uno ancora allattato al seno. I certificati medici che attestano il rischio di un aborto spontaneo e le precedenti gravidanze terminate prematuramente sono stati ritenuti ininfluenti.
Certo, è innegabile il lato criminoso della vicenda e il suo aspetto recidivo, ma ciò che nella valutazione del caso è mancato, è che Amra non era l’unica a dover essere giudicata. Con lei, tutti i suoi figli, di cui uno di circa un anno e uno non ancora nato al momento della sentenza, condannato a vivere in carcere ancor prima di venire al mondo.
di Sara Tonini
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