Sul reato di abuso d’ufficio il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha usato toni apocalittici. Abrogarlo in toto sarebbe «un vulnus agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia in tema di corruzione con le convenzioni di Strasburgo e Merida», ha detto alla Commissione Giustizia della Camera. Non sappiamo se fosse già a conoscenza dei dati che il Ministero aveva inviato a quella stessa Commissione appena poche settimane prima: il 96% dei procedimenti per abuso d’ufficio si conclude con l’archiviazione degli indagati e nei pochi casi di rinvio a giudizio gli assolti sono comunque il 90%. Il che si traduce in un numero di condanne risicato quanto risibile: 37 nel 2020, addirittura meno della metà (18) nel 2021.
Di fronte a questi dati la magistratura tutta è insorta: se il problema è solo questo, Dio salvi l’abuso d’ufficio e passiamo oltre. Con buona pace delle centinaia di amministratori locali – pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio – risucchiati nella centrifuga mediatico-giudiziaria per settimane o mesi dal momento dell’arresto o anche della sola iscrizione nel registro degli indagati. Salvo poi risultare, anni dopo, quasi sempre assolti o prosciolti. La casistica ribolle di situazioni tragicomiche: dalla nomina di un semplice segretario alla mancata autorizzazione a usare una piazza per un comizio, dalla trascrizione di nozze gay alla variante di un piano regolatore. Con la pubblica amministrazione in stallo permanente.
di Valentino Maimone
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