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Bari, la politica e i clan

L’inchiesta che sta agitando Bari è una bomba in termini politici ma non solo: dallo sport ai trasporti, ecco cosa sta accadendo

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Bari, la politica e i clan

L’inchiesta che sta agitando Bari è una bomba in termini politici ma non solo: dallo sport ai trasporti, ecco cosa sta accadendo

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L’inchiesta che sta agitando Bari è una bomba in termini politici ma non solo: dallo sport ai trasporti, ecco cosa sta accadendo

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L’inchiesta che sta agitando Bari è una bomba in termini politici ma non solo: dallo sport ai trasporti, ecco cosa sta accadendo

Centotrentacinque provvedimenti cautelari, di cui 110 in carcere. Quella della Procura di Bari è un’inchiesta che sembra coinvolgere innumerevoli settori, dai trasporti allo sport e alla politica. C’è questo dietro il polverone che sta travolgendo il capoluogo pugliese. Al di là degli elementi politici, l’ipotesi dell’accusa è che i clan – in particolare il sodalizio del quartiere di Japigia – manovrassero i fili di numerosi settori economici in città.

La vicenda più eclatante riguarda la coppia formata dall’ex consigliere regionale Giacomo Olivieri e da sua moglie (nonché consigliera comunale) Maria Carmen Lorusso: entrambi arrestati, lui in carcere e lei ai domiciliari. Nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta si riportano dialoghi fra lo stesso Olivieri e alcuni esponenti di spicco dei clan, finalizzati a reperire voti per far eleggere la moglie in Consiglio comunale nel 2019. Elezione poi di fatto avvenuta (secondo la Procura) proprio grazie ai voti reperiti dai boss nei vari quartieri cittadini.

Infiltrazioni sarebbero state accertate – sempre secondo l’ipotesi accusatoria – anche all’interno di Amtab, l’azienda municipalizzata dei trasporti del Comune di Bari, che è stata messa in amministrazione controllata. Vi lavoravano componenti delle storiche famiglie dei clan di Japigia, in particolare uno degli arrestati che viene considerato fra le figure di spicco legate alla criminalità organizzata. L’accusa è convinta che le assunzioni venivano pilotate dai boss.

Un altro aspetto dell’inchiesta riguarda l’investimento nel business del caffè. Secondo l’accusa i clan avrebbero costretto bar e attività commerciali a vendere esclusivamente il proprio prodotto (peraltro spesso acquistato in nero). Si legge nelle carte della Procura che diverse realtà commerciali, pur pagando un caffè di scarsa qualità a prezzi maggiorati rispetto al valore di mercato, avrebbero ottenuto in cambio la protezione mafiosa delle attività e guadagni ampliati e sottratti all’imposizione fiscale. I boss avevano insomma interessi e affari un po’ ovunque. Con una metodologia di azione intimidatoria che viene paragonata a quella delle cosche della ’ndrangheta: al titolare di un bar sarebbe stato incendiato il locale solo perché aveva chiesto al figlio del boss di pagare il caffè da lui appena consumato.

Nell’inchiesta è finito tanto altro: per esempio alcune partite di calcio dilettantistiche e una grossa concessionaria di Bari, accusata di essere nell’orbita mafiosa. Persino una dipendente della Procura che si sarebbe rivolta ai clan per recuperare la propria auto rubata. E un’impresa sociale – ufficialmente creata per combattere la dispersione scolastica, aiutare i lavoratori svantaggiati, sviluppare il turismo per disabili e addirittura riqualificare i beni confiscati alla criminalità organizzata – che invece sarebbe riconducibile a uno degli esponenti dei clan.

Ferma restando la presunzione di innocenza, le ipotesi accusatorie sono pesanti e restituiscono la fotografia di una realtà in cui il crimine ha ramificazioni in molti dei business più redditizi. Servirebbe che tutto passasse quanto prima al vaglio di un processo, ricordando che in casi analoghi del passato non sempre questo è accaduto.

di Annalisa Grandi

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