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Cantata di Cutro, parole perdute

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Ripensando alla cantata sulle note di Fabrizio De Andrè a ridosso di Cutro del duo Salvini-Meloni ci si chiede se le parole abbiano ancora un senso
Cantata Cutro

Cantata di Cutro, parole perdute

Ripensando alla cantata sulle note di Fabrizio De Andrè a ridosso di Cutro del duo Salvini-Meloni ci si chiede se le parole abbiano ancora un senso
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Cantata di Cutro, parole perdute

Ripensando alla cantata sulle note di Fabrizio De Andrè a ridosso di Cutro del duo Salvini-Meloni ci si chiede se le parole abbiano ancora un senso
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Ve ne siete dimenticati, si è già passati oltre? A me, invece, è rimasto in testa. La ragione si nutre di memoria. Quel che interessa, nella cantata a ridosso di Cutro, non è l’indignazione oppositoria, che sa tanto di partito preso. No, mi restano in mente le riprese e il perduto senso delle parole.

Capita di partecipare a funerali, di essere veramente commossi e sentirsi vicini ai familiari. Poi, due metri e due minuti più in la, ci si rivede dopo molto tempo, ci si scambia una battuta e un sorriso. Non c’è falsità. Solo che non lo si fa in faccia a chi piange ed esiste pur sempre una differenza fra un privato a lutto e chi incarna un lutto collettivo. Difatti, si osserverà, la cantata avvenne ben lontano dal luogo di quel lutto feroce. Vero. Ma è incredibile che in una stessa stanza si trovino la presidente del Consiglio e il suo vice, circondati da amici, e che con incoscienza totale si possa tirare fuori il telefono e riprendere. Quando, oramai, pure i sassi hanno imparato che quelle immagini potranno essere utilizzate solo contro di te. Nessuno che dica: amici, compagni, camerati, mettete in tasca quella roba. E nessuno che senta il pudore d’essere l’ospitato che mollerà la fregatura agli ospitanti.

E vabbè, la debolezza egolatrica di riprendersi e la cattiveria di riprendere sono considerate ineliminabili. Quando non ammirevoli. E così, pur non essendo né invitati né interessati, abbiamo finito con il partecipare da guardoni. Anche questo è costume collettivo. Ma la cantata usava le note e il testo di un tal Fabrizio De André. Ed è qui che ci si chiede se le parole abbiano ancora un senso. Che lo si definisca poeta o cantautore, non cambia che fu il cantore degli ultimi, dei reietti: puttane, travestiti, zingari, drogati. Non cambia che trovava immorale la morale comune. Non cambia che dedicò un’intera raccolta di composizioni – un “album”, come si diceva ai tempi del vinile – a Gesù. Lo intitolò “La buona novella”. Tutto il suo ragionare è basato sui vangeli apocrifi e con un “Testamento di Tito” non proprio destinato a glorificare i comandamenti. Che ci fa questa roba nell’ugola di chi i campi nomadi non li canta, non racconta il “caritare”, ma più volte si propose di spianarli con le ruspe? Di chi porta i rosari ai comizi?

Nessuno risponderà, perché c’è la cultura imbastardita di intere generazioni che ha tolto senso alle parole, che si celebra nell’essere “contro” e si esercita nell’essere contro altri che sono contro, finendo con il cantare le stesse cose, riproponendole solo perché parte della loro vita adolescenziale e mai di una storia adulta. Cantano, da destra a sinistra, le stesse cose perché sono figli dello stesso mondo, avverso il quale protestano. Quel furto d’immagine dice molto, ma solo a chi pensa che le parole abbiano ancora un senso.

di Davide Giacalone

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