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Come Draghi negli USA diventa un problema per certa politica troppo provinciale

Il provincialismo della politica italiana lascia il Paese pericolosamente scoperto. Draghi rappresenta l’investimento più rassicurante per la politica statunitense nei rapporti con l’Unione europea.
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Come Draghi negli USA diventa un problema per certa politica troppo provinciale

Il provincialismo della politica italiana lascia il Paese pericolosamente scoperto. Draghi rappresenta l’investimento più rassicurante per la politica statunitense nei rapporti con l’Unione europea.
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Come Draghi negli USA diventa un problema per certa politica troppo provinciale

Il provincialismo della politica italiana lascia il Paese pericolosamente scoperto. Draghi rappresenta l’investimento più rassicurante per la politica statunitense nei rapporti con l’Unione europea.
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Il provincialismo della politica italiana lascia il Paese pericolosamente scoperto. Draghi rappresenta l’investimento più rassicurante per la politica statunitense nei rapporti con l’Unione europea.
Gli incontri del presidente del Consiglio Mario Draghi a Washington, per quanto attesi, difficilmente potranno riservare sorprese. A cominciare proprio dal faccia a faccia, nello Studio Ovale, con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Non è lecito nutrire il minimo dubbio sulla posizione italiana che il capo del governo ribadirà al capo della Casa Bianca, incardinata sul più genuino atlantismo, così come è scontata l’accoglienza che sarà riservata all’ex presidente della Banca centrale europea, il leader sulla scena del Vecchio Continente più di ‘casa’ a Washington e al contempo portatore di un’indiscutibile visione europeista. Nessun colpo di scena, contenuti ampiamente prevedibili, eppure serie di incontri (Biden, Congresso, Think tank) di grande rilievo nazionale e internazionale. Partiamo dai riflessi esterni al nostro Paese: Mario Draghi rappresenta l’investimento più logico e rassicurante per la politica statunitense nei rapporti con l’Unione europea. Non un “ambasciatore“ o – peggio – un “portavoce”, come qualche zelante profeta dell’antiamericanismo va dicendo. È la balla di un Draghi puro esecutore delle volontà della Casa Bianca, non in grado di interloquire o rappresentare posizioni e sensibilità diverse. In realtà, il ragionamento va sviluppato esattamente all’opposto. Come accennavamo, se c’è un leader che in questo delicatissimo passaggio storico può legittimamente aspirare al ruolo di cerniera fra le due sponde dell’Atlantico, con naturale credibilità e senza cercare patenti dell’ultimo minuto, quello è proprio il presidente del Consiglio italiano. È evidente che l’Unione europea non possa esercitare una politica distinta da quella statunitense (peggio ancora scoordinata) nella crisi ucraina, ma è altrettanto ovvio che l’Unione abbia bisogno di una sua capacità di iniziativa, per favorire l’individuazione del mediatore capace di portare Putin al tavolo delle trattative. Mantenendo il punto cruciale delle sanzioni e della politica di contenimento dello zar. Fondamentali per il ruolo di Draghi, da questo punto di vista, i segnali arrivati nel fine settimana su una possibile intesa per dare il via al sesto pacchetto delle sanzioni Ue contro Mosca, quello che prevede il cruciale passaggio sul petrolio russo. Altrettanto indiscutibile è la zavorra che Mario Draghi è costretto a portare con sé: i distinguo e le prese di distanza nella sua maggioranza, proprio sull’architrave della politica americana: il forte sostegno militare e di intelligence all’Ucraina e alla strategia politica del presidente Volodymyr Zelensky. Draghi può legittimamente richiamare i due voti in Parlamento a favore dell’invio di armi italiane a Kiev, ma sa di essere indebolito dal rumore di fondo che lo insegue da Roma. È un problema oggettivo, che trova un’eco non casuale nel dibattito pubblico di casa nostra, di gran lunga il più inquinato dagli effetti della propaganda putiniana di tutta Europa. Il presidente del Consiglio deve gestire tutto questo, ma il Paese ha un problema ben più grande: fino a quando il carisma e lo standing internazionale dell’ex n. 1 della Bce potranno supplire alla conclamata inadeguatezza della politica nostrana davanti alla sfida che Vladimir Putin ha lanciato? Converrebbe provare a rispondere a questa domanda, invece di perder tempo con la doppia tentazione di derubricare la visita a Washington a puro omaggio alla Casa Bianca o farne chissà quale snodo decisivo. È solo un passaggio, per quanto importante, della molto più ampia strategia occidentale per contrastare la politica imperialista dello zar. Il provincialismo della nostra politica deprime sé stessa e lascia il Paese pericolosamente scoperto. di Fulvio Giuliani

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