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Cultura della sconfitta e chi ci vuol male

La cultura della polemica per la polemica finisce per diventare la cultura della sconfitta. Tutto il contrario di ciò che insegna lo sport

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Cultura della sconfitta e chi ci vuol male

La cultura della polemica per la polemica finisce per diventare la cultura della sconfitta. Tutto il contrario di ciò che insegna lo sport

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La cultura della polemica per la polemica finisce per diventare la cultura della sconfitta. Tutto il contrario di ciò che insegna lo sport

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La cultura della polemica per la polemica finisce per diventare la cultura della sconfitta. Tutto il contrario di ciò che insegna lo sport

Eppur si vince. Riprendendo il caso della boxe olimpica, dovremmo riuscire a porre un limite alla cultura della polemica per la polemica, che finisce per diventare cultura della sconfitta. O almeno della ricerca spasmodica dell’alibi, della giustificazione. Quando lo sport insegna sin dalla tenera età che la sconfitta è parte integrante dell’esperienza e motore fondamentale per le vittorie che verranno.

L’atteggiamento di un intero pezzo di Paese, invece, ha finito per sovrastare mediaticamente le due splendide medaglie d’oro e l’argento arrivati dalla canoa slalom, dallo judo e dalla scherma (e l’ulteriore argento dal canottaggio e la medaglia virtuale del tennis).

Per cosa, poi? Per dar fiato al trombonismo di un’inesistente macchinazione “gender” ai danni dell’incolpevole atleta azzurra? Qualcuno può veramente pensare che sia credibile una lettura del genere? Anche lo spettacolo dell’incontro fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Presidente del comitato olimpico internazionale Thomas Bach, officiato dal presidente del Coni Giovanni Malagò che ha comprensibilmente tutto l’interesse a chiudere l’incidente, ha avuto del surreale. Perché se da un lato è sacrosanto il riconoscimento dovuto dal Cio a un capo di governo di un importante Paese del movimento olimpico, a conti fatti Bach ha semplicemente ribadito alla Meloni i contenuti del duro comunicato stampa dell’altro ieri, in cui si ripeteva che Imane Khelif è una donna a tutti gli effetti giuridici e sportivi e che – ove l’Italia avesse qualche dubbio concreto da sollevare e non certo a mezzo tweet – spetterebbe al nostro comitato olimpico fare tutte le necessarie mosse. Cortesie e sorrisi a parte, non caviamo un ragno dal buco. Forse perché non c’era un ragno da cavare.

A parte le motivazioni “politiche” di un Elon Musk, una donna che ammiriamo profondamente come J.K. Rowling questa volta ha scantonato di brutto, definendo la pugile algerina transessuale, una notizia semplicemente falsa. Il confronto non dovrebbe essere che scientifico e poi regolamentare, mentre il polverone sollevato avrà fatto felice sicuramente qualcuno a Mosca. A cominciare dall’impresentabile presidente della Federazione internazionale della boxe dilettantistica (commissariata dal Cio per corruzione…), Umar Kremelev, amico personale di Vladimir Putin e non esattamente il personaggio a cui ci sembra prudente rifarsi per una riflessione su regole e diritti.

Sarà un caso e non lo è Putin in persona ieri ha cavalcato il caso definendo quelle di Parigi le “Olimpiadi della perversione”. Chissà se a qualcuno in Italia saranno fischiate le orecchie. Qualcuno che dovrebbe spendersi piuttosto per la velocista afghana che ha avuto il coraggio di invocare diritti per sé e la sua terra, dopo aver chiuso staccatissima i suoi 100 metri. Per noi, è medaglia d’oro.

Di Fulvio Giuliani

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