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Divisioni e difesa

Se si vogliono avere più divisioni armate di difesa si devono avere meno divisioni politiche europee e qualche visione realistica del futuro

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Divisioni e difesa

Se si vogliono avere più divisioni armate di difesa si devono avere meno divisioni politiche europee e qualche visione realistica del futuro

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Se si vogliono avere più divisioni armate di difesa si devono avere meno divisioni politiche europee e qualche visione realistica del futuro

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Se si vogliono avere più divisioni armate di difesa si devono avere meno divisioni politiche europee e qualche visione realistica del futuro

La guerra che Putin ha scatenato in Ucraina è al nostro confine europeo di terra. Quel che accade in Siria è al nostro confine di mare. In entrambi i quadranti Putin è il perdente, in varia compagnia, ma non per questo i conflitti si placano. In Ucraina non può soltanto prendere atto di avere massacrato una generazione per nulla e nel Mediterraneo la perdita del controllo delle basi navali e aeree in Siria spingerà a spostarle altrove. E se Israele si appropria del Golan e di un pezzo di Siria i focolai di guerra mediterranea si spargeranno e aumenteranno.

In tutti i casi abbiamo bisogno di investire molto di più in difesa e in questa partita il ministro Crosetto non deve essere lasciato solo. Né basta spendere di più, perché si deve spendere meglio e non si può che farlo lavorando alla difesa europea. Se si vogliono avere più divisioni armate difensive si devono avere meno divisioni politiche europee e qualche visione realistica del futuro.

L’osservazione fatta da Mario Draghi è ineccepibile: l’asse franco-tedesco che ha guidato l’Unione europea si è indebolito, ma non ci sono altri a sostituirlo. La Francia un governo se lo darà. La Germania voterà a febbraio. Chi oggi si trova al governo – Crosetto compreso – è cresciuto polemizzando contro quel che oggi sa essere conveniente consolidare. Questa contraddizione non deve essere nascosta, ma affrontata. E se deve farlo chi governa è bene lo faccia anche chi si oppone, perché gli interessi di un Paese non cambiano a seconda di chi riesce a incollare più cocci elettorali incompatibili.

Cercando di mettere in coerenza l’incoerenza, fra quel che si sostenne in passato e quel che si è chiamati a fare nel presente, il governo italiano reitera la richiesta che le spese per la difesa non siano contabilizzate nel patto di stabilità. Vale a dire la possibilità di fare più debito nazionale. È la via sbagliata e quella eventuale non contabilizzazione non soltanto non diminuirebbe il rischio comportato da un debito eccessivo, ma potrebbe aumentarlo. La via corretta è quella di fare debito comune per un interesse comune, perché ciò permetterebbe di ottenere tre risultati importanti: a. integrare la difesa e, quindi, uniformare le politiche estere; b. fare di quella spesa non una sottrazione di ricchezza per altri impieghi, ma un volano per la creazione di ricchezza; c. accrescere la sicurezza economica nel mentre si accresce quella difensiva.

Debiti comuni già esistono, con i loro relativi titoli. Fra l’altro noi ne siamo i principali beneficiari. Non di meno i Paesi meno indebitati – denominati “frugali” e nella realtà meno spendaroli e più responsabili – sono riottosi a garantire debito collettivo che altri possono garantire meno. Posizione negativa e da superare, epperò comprensibile. La leva per far saltare questa contrarietà consiste nell’evidenza di un interesse comune. Per dirne una, Germania e Paesi Bassi non potranno certo difendersi da soli né da soli alimentare un’industria della difesa all’altezza dei bisogni.

Ma quella leva ha bisogno d’essere azionata da mani che abbiano credibilità, pertanto è fuori dalle cose reali che si chieda di potere disporre di debito comune nel mentre si rivendica un sovranismo dell’impotenza. E se si fa appello agli interessi comuni non è che si possa valorizzarli quando si parla di difesa e disprezzarli se si parla di mercato unico bancario, se non altro perché il primo difende il secondo e il secondo alimenta il primo.

Il governo Meloni, sebbene con il fastidioso controcanto leghista, ha una inequivocabile collocazione occidentale – saldamente a difesa dell’Ucraina – e ha compiuto la scelta europeista anche nel voto favorevole alla nuova Commissione europea. Nel Mediterraneo il problema non sono i barconi di disperati, ma la disperazione di uno squilibrio che non puoi esternalizzare in Albania. Un ruolo importante si può giocarlo, ma non tenendo il piede in due ciabatte e continuando a ripetere la litania dell’Ue impotente. Non è soltanto falso, è nocivo.

di Davide Giacalone

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