Giustizia è (s)fatta. Un organo dello Stato emette un provvedimento, un altro organo lo impugna e ne emette uno opposto. Un terzo organo, tipicamente il Consiglio di Stato, viene coinvolto per dirimere la controversia. Ormai questa è una consuetudine.
Ormai è diventata un’abitudine. Un organo dello Stato emette un provvedimento, un altro organo lo impugna e ne emette uno opposto. Un terzo organo, tipicamente il Consiglio di Stato, viene coinvolto per dirimere la controversia.
È successo più volte per le scuole, aperte dal governo centrale e chiuse da un governo regionale. È successo per le cure domiciliari del Covid, con il governo centrale, il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato a litigare su «tachipirina e vigile attesa». Ed è risuccesso con la nomina dei vertici della Cassazione da parte del Consiglio superiore della magistratura (Csm), avvenuta nel 2020, contestata da un candidato bocciato, annullata pochi giorni fa dal Consiglio di Stato, ma pervicacemente ribadita dal Csm, in totale spregio del Consiglio di Stato.
Non so se abbia ragione Piero Sansonetti, che ha parlato di golpe del Csm e ha deplorato il comportamento del capo dello Stato, che anziché «inviare i carabinieri (come avrebbe fatto Cossiga)» ha legittimato la protervia del Csm non facendo mancare la propria presenza all’inaugurazione dell’anno giudiziario, officiata da un magistrato appena deposto (si può dire così?) dal Consiglio di Stato, il grado più alto della giustizia amministrativa.
Quel che posso dire, però, è che come cittadino sono sconcertato non tanto dal comportamento di una parte (per fortuna minoritaria) della magistratura, che opera in modo del tutto arbitrario e spesso illegale, ma del suo ostinato rifiuto di autocorreggersi e autoriformarsi. Uno sconcerto che, a giudicare dai sondaggi, è condiviso dalla stragrande maggioranza dei cittadini (negli ultimi dieci anni la fiducia nella magistratura è crollata dal 68% al 39%).
Quanto tempo è passato dallo scoppio dello scandalo Palamara? E da quello della cosiddetta Loggia Ungheria? Che cosa aspetta il Csm ad autosciogliersi e proporre altre regole di elezione? Si potrebbe rispondere, come spesso si sente dire, che è la politica che dovrebbe prendere l’iniziativa, liberandosi dalla sua soggezione al partito delle toghe e intervenendo con risolutezza contro la balcanizzazione del sistema giudiziario, dilaniato da faide interne e arbitri di ogni genere.
Ma come potrebbe farlo se il presidente della Repubblica, che è anche il capo supremo della magistratura, non assume alcuna iniziativa incisiva? E come farlo se una parte della politica preferisce usare i giudici contro gli avversari, piuttosto che riportarli al loro ruolo costituzionale di terzietà e imparzialità? E infatti una delle maggiori mancanze dell’attuale governo è stata precisamente l’inerzia sul versante della riforma del Csm, un ritardo gravissimo se teniamo conto che fra pochi mesi è prevista l’elezione del nuovo Consiglio.
Che si può fare, dunque? Nulla, temo. Salvo, forse, sperare che il prossimo ticket presidenziale – capo dello Stato e presidente del Consiglio – trovi il coraggio che finora è mancato sia a Mattarella sia a Draghi. Magari aiutato da un segnale chiaro dei cittadini che, se la Cassazione il 10 febbraio darà l’ok ai referendum sulla giustizia (e se non si andrà a elezioni anticipate), la prossima primavera potrebbero avere nelle loro mani l’arma decisiva.
di Luca Ricolfi
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