Governo. La mozione di fiducia
L’altro ieri una Giorgia Meloni ha illustrato il programma di governo all’assemblea di Montecitorio. Ma perché proprio alla Camera e non al Senato?
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Governo. La mozione di fiducia
L’altro ieri una Giorgia Meloni ha illustrato il programma di governo all’assemblea di Montecitorio. Ma perché proprio alla Camera e non al Senato?
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Governo. La mozione di fiducia
L’altro ieri una Giorgia Meloni ha illustrato il programma di governo all’assemblea di Montecitorio. Ma perché proprio alla Camera e non al Senato?
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L’altro ieri una Giorgia Meloni ha illustrato il programma di governo all’assemblea di Montecitorio. Ma perché proprio alla Camera e non al Senato?
In omaggio alla regola non scritta dell’alternanza. Il presidente Draghi si era presentato per la fiducia prima al Senato, ed ecco che la neo presidente del Consiglio ha esordito nell’altro ramo del Parlamento. Fino al 1980 i presidenti erano tenuti a leggere le dichiarazioni programmatiche in entrambe le Camere. Ma poi arrivò a Palazzo Chigi Arnaldo Forlani, un democristiano dalla pigrizia proverbiale. Si mise d’accordo con i presidenti delle Camere Amintore Fanfani e Nilde Iotti e da allora il testo del discorso d’investitura è consegnato all’altra Camera e pubblicato nel resoconto stenografico.
I governi di legislatura sono stati evocati infinite volte. Ma i Ministeri non durano così tanto, come farebbe supporre la lunghezza delle dichiarazioni programmatiche. Ribattezzate da Giovanni Malagodi «brevi considerazioni sull’universo». Ed ecco un’altra regola non scritta ma altrettanto cogente: la regola della culla, secondo la quale i governi muoiono nella Camera che per prima gli ha conferito la fiducia. Una regola che si afferma ai tempi della presidenza Pertini. Il Castigamatti del Quirinale non sopportava il fatto che le crisi di governo fossero extraparlamentari: nate fuori e contro il Parlamento. E così, con un motu proprio degno del personaggio, invitò i governi a presentarsi in Parlamento e motivare in quella sede le loro dimissioni.
Al dibattito è seguita la replica del presidente del Consiglio. Giulio Andreotti era un maestro. Replicava a quasi tutti gli intervenuti, ma in particolar modo ai parlamentari dell’opposizione. Un po’, non si sa mai, per ingraziarseli. E un po’ per un ossequio non formale al ruolo dell’opposizione. Mario Draghi ha seguito le orme del divo Giulio e non ha avuto motivo di pentirsene. E Giorgia Meloni, per quasi una vita all’opposizione, ha lodevolmente dedicato l’intera replica agli avversari.
La mozione di fiducia, presentata dai capigruppo della maggioranza, come al solito è stringata: «La Camera, udite le dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio dei ministri, esprime la fiducia al governo della Repubblica». Giovanni Spadolini volle innovare ma non ebbe fortuna. Pretese che il testo delle mozioni di fiducia ai suoi due governi, a cavallo degli anni Ottanta, fosse lungo come un lenzuolo. Ma questo non impedì la loro caduta dopo un po’ di tempo. La mozione di fiducia è stata poi votata per appello nominale, che è la forma più spettacolare dello scrutinio palese. Per la sua approvazione è richiesta la maggioranza semplice, vale a dire la metà più uno dei presenti e non già dei componenti. Un quorum ampiamente superato, dati i rapporti di forza tra maggioranza e opposizioni distinte e distanti tra loro: 235 sì, 154 no e 5 astenuti, del gruppo misto. Tutto fa brodo.
Ieri il bis a Palazzo Madama. Il governo, nato in quattro e quattr’otto, è così entrato nel pieno esercizio delle sue funzioni.
Di Paolo Armaroli
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