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Giorgia Meloni in salsa inglese

Giorgia Meloni in salsa inglese

Ci troviamo ancora sul gobbo un parlamentarismo alla carlona. Non una novità nella storia della politica italiana. Giorgia Meloni, oggi, appare quindi come un premier “all’inglese”.
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Giorgia Meloni in salsa inglese

Ci troviamo ancora sul gobbo un parlamentarismo alla carlona. Non una novità nella storia della politica italiana. Giorgia Meloni, oggi, appare quindi come un premier “all’inglese”.
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Giorgia Meloni in salsa inglese

Ci troviamo ancora sul gobbo un parlamentarismo alla carlona. Non una novità nella storia della politica italiana. Giorgia Meloni, oggi, appare quindi come un premier “all’inglese”.
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Ci troviamo ancora sul gobbo un parlamentarismo alla carlona. Non una novità nella storia della politica italiana. Giorgia Meloni, oggi, appare quindi come un premier “all’inglese”.
In mancanza di quei dispositivi costituzionali invano auspicati all’Assemblea costituente dall’ordine del giorno Perassi, ci troviamo ancora sul gobbo un parlamentarismo alla carlona. Non diciamo all’italiana, per carità di patria. Si comincia a parlare del prossimo governo non appena quello insediato muove i primi passi. E i presidenti del Consiglio – salvo lodevoli eccezioni: i Fanfani, gli Andreotti, i Craxi – sono stati spesso dei re Travicelli alla mercé dei partiti. Tant’è che la collegialità dei gabinetti è stata insidiata dalle loro delegazioni. All’insegna del cuius regio, eius religio. Perfino Alcide De Gasperi si vide costretto a formare otto Ministeri in meno di otto anni. Né le cose gli andarono meglio dopo la vittoria elettorale del 18 aprile 1948. E lo statista trentino avrebbe potuto affermare quello che disse Luigi XV: «Dopo di me il diluvio». L’unica consolazione fu che la cronica instabilità ministeriale fu compensata dalla stabilità dei ministri, che come palline impazzite di un flipper si spostavano di continuo da un Ministero all’altro. Quasi fossero onniscienti. È famoso il grido di dolore di Giovanni Spadolini: «Siamo la Cenerentola d’Europa». E, novello Mosè, da Palazzo Chigi lanciò un decalogo istituzionale predisposto nel retrobottega dai suoi tre moschettieri del giure: Andrea Manzella, Silvano Tosi e Paolino Ungari. Pochi anni dopo il decalogo cominciò a dare i suoi frutti: il voto segreto divenne l’eccezione alla regola – con scorno dei franchi tiratori – e la legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio fece il resto. Con il risultato che i presidenti del Consiglio non furono più dei poveri Cirenei ma direttori d’orchestra più o meno fortunati. Un’ulteriore evoluzione si è registrata con la legge elettorale per tre quarti maggioritaria che reca il nome dell’attuale capo dello Stato e con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Il bipolarismo, a volte agevolato da una punta di trasformismo, comporta vincitori che vanno al governo e vinti che stanno all’opposizione. Abbiamo la percezione – sognare dopotutto è legittimo – che la democrazia sempre peggio mediata dai partiti diventi democrazia immediata garantita dal voto popolare. E adesso un altro passo in più. Perché stavolta il centrodestra si è affermato in maniera netta e all’interno della coalizione Fratelli d’Italia ha fatto la parte del leone: il numero dei suoi voti è di gran lunga superiore a quello dei suoi alleati e Giorgia Meloni, una professionista della politica, è assai più di un primus inter pares. Ci sembra un premier all’inglese. Anche perché il suo governo non ha alternative. Perciò la Meloni ha in definitiva il decreto di scioglimento in tasca. Come gli inquilini di Downing Street, salvo gli ultimi penosi casi. Il potere di scioglimento nelle mani del primo ministro – previsto dalla riforma costituzionale del centrodestra, abbattuta nel 2006 per via referendaria – oggi si avvera. Di fatto. Come spesso accade da noi.   di Paolo Armaroli    

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