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Il caso Toti e la politica autolesionista

La vicenda del governatore ligure Giovanni Toti evidenzia, ancora, il vocabolario limitato e di un illimitato autolesionismo della politica italiana

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Il caso Toti e la politica autolesionista

La vicenda del governatore ligure Giovanni Toti evidenzia, ancora, il vocabolario limitato e di un illimitato autolesionismo della politica italiana

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Il caso Toti e la politica autolesionista

La vicenda del governatore ligure Giovanni Toti evidenzia, ancora, il vocabolario limitato e di un illimitato autolesionismo della politica italiana

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La vicenda del governatore ligure Giovanni Toti evidenzia, ancora, il vocabolario limitato e di un illimitato autolesionismo della politica italiana

Non c’è verso. La politica dispone di un vocabolario limitato e di un illimitato autolesionismo, per giunta vestito d’ottusa furberia. La solfa è sempre la stessa: «tempi sospetti», «orologeria», «accuse gravi», «dimissioni», «se sarà dimostrato», «siamo garantisti». Invece è garantita, per l’ennesima volta, l’inattitudine a un costume che restituisca il diritto alla giustizia e la giustizia al diritto.

Non siamo finti ingenui, sappiamo bene che in politica – come in ogni altro aspetto della competizione e della vita – si approfitta delle difficoltà dell’avversario, ma questo significherebbe (se ci fosse ragionevolezza e non solo infantile ripicca) approfittare di un avversario inquisito e magari arrestato per ricordare a tutti che la Costituzione lo vuole innocente e che si deve distinguere il corso della giustizia dalla vita civile e politica, augurandosi che siano infondate le accuse che gli vengono rivolte. Servirebbe a mettere le mani avanti e prepararsi per quando – presto, molto presto – un compagno o un camerata sarà al suo posto, come servirebbe a calcare la mano quando dovesse arrivare la condanna, non avendo esaurito il linciaggio in effige nella stagione delle indagini. Ma niente, non c’è speranza: indignato stupore quando tocca ai propri, accanita stupidità quando tocca agli altri.

Quando capita agli amici si ricorre sempre all’insinuare il sospetto che sia una speculazione elettorale: perché proprio ora? Strano non sappiano che ultimamente si è votato tutti i mesi e, comunque, si vota tutti gli anni. Non di meno si votano al ridicolo del timer coordinato con le urne. Un esponente del Pd ligure, Andrea Orlando, sfida l’assurdo: se le notizie saranno confermate è difficile che la Giunta vada avanti. Ha fatto anche il ministro della Giustizia. Quando le accuse saranno provate (o smentite, il che accade nello stesso istante) in Liguria si sarà votato già un paio di volte. È incredibile che non capiscano di essersi autoconsegnati alla gogna giustizialista: se la giustizia non funziona e ha tempi incompatibili con la civiltà il solo spettacolo che rimane è quello dell’accusa. E a chi tocca non s’ingrugna.

L’emendamento Coso, il bavaglio Caio: soltanto vaniloquio. Arrestano un gruppo di persone e manco hanno finito di farlo che già le loro conversazioni telefoniche sono su tutti i mezzi di comunicazione. Naturalmente con gente stravaccata in barca e altri direttamente a puttane, il che serve ad alimentare il moralismo giustizialista. Peccato che né l’una né l’altra cosa costituiscano reato. Ma, si dirà, le intercettazioni dimostrano il mercimonio della funzione pubblica. No, per niente: le intercettazioni sono solo quelle che vuol farmi leggere l’accusa e, di suo, non dimostrano niente, se non il livello delle interlocuzioni. Il problema non è cosa dimostrano, ma quel che mostrano: l’interno di un’indagine che è solo un presupposto d’accusa. Peccato che la sentenza sia già stata emessa, in piazza e al bar, come sostenevano le toghe giustizialiste che mi querelavano e che hanno sempre perso in giudizio, perché si dimostrava fossero loro le traditrici del diritto.

Se la politica avesse conservato dignità avrebbe fatto una sola osservazione, senza distinzione di schieramento: gli arresti erano considerati urgenti a metà dicembre, ma sono stati eseguiti a maggio. Punto, fine: bancarotta del diritto e della giustizia perché, ammesso l’esigenza esistesse, è insensata dopo cinque mesi. Della sorte degli odierni indagati non ce ne importa nulla, come dei loro predecessori e dei tanti loro immediati successori. Fatti loro.

Che tale sorte sia legata a una giustizia che non merita di definirsi tale è il problema collettivo, il solo su cui la politica non ha il diritto, ma il dovere di intervenire. Un dovere che potrebbe veder convergere la civiltà di destra e di sinistra. Invece convergono le rispettive inciviltà, che si fortificano con le vicendevoli viltà. Dovrebbero capire che arrestarsi è meno disonorevole che campare e crepare d’arresti.

di Davide Giacalone

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