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Il complicato rapporto fra governanti e governati

Comunque la si pensi, sta di fatto che il rapporto tra governanti e governati è maledettamente complicato. In modo particolare negli ordinamenti liberaldemocratici, dove si governa con il consenso dei governati

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Il complicato rapporto fra governanti e governati

Comunque la si pensi, sta di fatto che il rapporto tra governanti e governati è maledettamente complicato. In modo particolare negli ordinamenti liberaldemocratici, dove si governa con il consenso dei governati

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Il complicato rapporto fra governanti e governati

Comunque la si pensi, sta di fatto che il rapporto tra governanti e governati è maledettamente complicato. In modo particolare negli ordinamenti liberaldemocratici, dove si governa con il consenso dei governati

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Comunque la si pensi, sta di fatto che il rapporto tra governanti e governati è maledettamente complicato. In modo particolare negli ordinamenti liberaldemocratici, dove si governa con il consenso dei governati

Nelle sue “Memorie” – raccolte da Olindo Malagodi, padre di Giovanni, per molti anni segretario del Pli – Giovanni Giolitti così si esprime: «Governare gl’italiani non è impossibile, è inutile». Una massima stranamente condivisa da Mussolini. Comunque la si pensi, sta di fatto che il rapporto tra governanti e governati è maledettamente complicato. In modo particolare negli ordinamenti liberaldemocratici, dove si governa con il consenso dei governati. Tuttavia, le cose cambiano a seconda di chi dia il La.

Al riguardo, Cavour aveva le idee ben chiare. Nella seduta del Senato del 26 febbraio 1861, in occasione del dibattito sulla proclamazione dell’Unità d’Italia, afferma: «Vi sono due sistemi che un Governo illuminato, liberale, desideroso di rimanere in armonia col popolo può seguire: o aspettare che l’opinione pubblica si manifesti e che dopo essersi manifestata eserciti sopra il Governo una certa pressione per ispingerlo più in un senso che in un altro, per mostrargli la via che ha da seguire; oppure cercare d’indovinare gl’istinti della Nazione, determinare quali siano i suoi veri bisogni, ed in certo modo, spingere lui stesso; essere, in una parola, o rimorchiato, ovvero rimorchiatore». E aggiunge: «Ho sempre creduto dover seguire il secondo; e mi pare che gli eventi abbiano dato ragione a questa mia scelta».

Nella seduta della Camera dei deputati del 14 marzo successivo, Cavour concede il bis. Dichiara: «Negli ultimi avvenimenti l’iniziativa fu presa dal Governo del Re… fu il Governo che prese l’iniziativa della campagna di Crimea; fu il Governo del Re che prese l’iniziativa di proclamare il diritto d’Italia nel Congresso di Parigi; fu il Governo del Re che prese l’iniziativa dei grandi atti del 1859, in virtù dei quali l’Italia si è costituita». Il suo governo da un lato rimorchia l’opinione pubblica, cioè i governati; dall’altro si atteggia a comitato direttivo della maggioranza parlamentare.

Ma il rapporto rimane circolare, perché ogni azione di un governo provoca la reazione dei governati. Ne consegue che ha ragione Denis Mack Smith quando afferma che la storia costituzionale d’Italia è caratterizzata da una serie di dittatori parlamentari, quali Cavour, Depretis, Crispi e Giolitti; ma ha ragione anche Giuseppe Maranini quando sostiene che il nostro è stato un sistema pseudoparlamentare dove i governi cadevano come birilli. Una coincidentia oppositorum.

Ai tempi della Prima Repubblica, erano i partiti a influenzare con le loro ideologie l’opinione pubblica. Il Pci di Palmiro Togliatti era un convento dove l’ora et labora andava di pari passo con “zitti e Mosca”. E il “centralismo democratico” era Vangelo. Mentre nel Msi poteva capitare che un leader carismatico come Giorgio Almirante fosse messo in minoranza e costretto a dire no al divorzio, in compagnia di Amintore Fanfani, in occasione del referendum abrogativo del 1974. Ma da quando i partiti hanno relegato in soffitta le ideologie di una volta e sono diventati liquidi come l’acqua fresca, tutto è cambiato. Berlusconi fu il primo ad avvalersi dei sondaggi per correggere in qualche misura i suoi punti di vista. E tutti gli altri gli sono andati appresso.

Elly Schlein è ambigua perché soffre la concorrenza a sinistra di Giuseppe Conte, un camaleonte politicamente frigido. E lo stesso vale per Giorgia Meloni. Più che Matteo Salvini, che abbaia ma non può mordere più di tanto, teme connazionali che sventolano più le bandiere della pace che i Tricolori, che ai cannoni – questi Alberto Sordi dei nostri tempi – preferiscono il burro non guardando oltre la punta del loro naso e sono totalmente sprovvisti di un idem sentire de republica. Apolidi in servizio permanente effettivo.

Nell’alternativa tra Stati Uniti ed Europa, Meloni tifa per l’Occidente, come testimonia il suo intervento di ieri al Senato: per gli uni, guidati da un Trump che ci sorride, e per l’altra, dove Londra e Parigi si danno un gran da fare. Tutela come può l’interesse nazionale. Ma deve fare i conti con un’opinione pubblica che si allarma al solo sentir parlare di armi e soldati. E così Meloni si adegua.

Di Paolo Armaroli

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