Il mistero Conte
Il mistero Giuseppe Conte continua e si infittisce. Inutile negare il peso avuto, nella surreale crisi innescata dal Movimento Cinque Stelle, dall’ultima metamorfosi dell’ex presidente del Consiglio
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Il mistero Giuseppe Conte continua e si infittisce. Inutile negare il peso avuto, nella surreale crisi innescata dal Movimento Cinque Stelle, dall’ultima metamorfosi dell’ex presidente del Consiglio
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Il mistero Giuseppe Conte continua e si infittisce. Inutile negare il peso avuto, nella surreale crisi innescata dal Movimento Cinque Stelle, dall’ultima metamorfosi dell’ex presidente del Consiglio
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Il mistero Giuseppe Conte continua e si infittisce. Inutile negare il peso avuto, nella surreale crisi innescata dal Movimento Cinque Stelle, dall’ultima metamorfosi dell’ex presidente del Consiglio
L’uomo che fu “avvocato del popolo“ (ancora cerchiamo di capire cosa diavolo significasse, oltre appoggiare sconclusionate idee di politica estera tipo ‘via della seta’ o inseguire i gilet gialli francesi o l’abolizione per decreto della povertà) e oggettivamente, poi, seppe cucirsi addosso un profilo da statista nell’inferno della pandemia.
Davanti all’impensabile, Conte fece il possibile ed ebbe un ruolo di rilievo nel portare con successo le istanze italiane in seno all’Unione Europea, in quel processo complesso e straordinario che ha permesso il varo non solo dei primi aiuti d’emergenza, ma del fondamentale Next Generation EU.
L’avvocato divenuto politico avrebbe dovuto – a rigor di logica – continuare su quella strada: terminata traumaticamente l’esperienza del suo governo e sostituito da Mario Draghi, Conte poteva e doveva sfruttare lo standing conquistato e il passato più recente, in grado di far dimenticare le spericolate acrobazie del suo primo governo, per traghettare se stesso e il Movimento Cinque Stelle in una dimensione razionale e utile alle strategie e al futuro del Paese.
Invece, proprio da quel momento, è cominciato un’incomprensibile rincorsa graduale, ma inesorabile, alle posizioni più estremiste e vagamente nostalgiche dei ‘vaffa’ che furono. Un continuo sgomitare, sulla falsariga prima dei mal di pancia leghisti di Matteo Salvini, per superarli fragorosamente a destra e sinistra, trasformandosi definitivamente in un Gianburrasca in pochette. Un’accelerazione continua, verso il tragicomico finale di giovedì scorso, con l’indecente Aventino in Senato che ha spinto Draghi alle dimissioni.
Cosa vuole Conte? Nessuno lo sa, di sicuro il punto non è il termovalorizzatore di Roma, una scusa bella e buona – l’hanno capito pure i bambini – per creare il casus belli e arrivare allo showdown con l’ex presidente della Bce. Probabilmente nulla più che calcoli del tutto limitati e un filo meschini per il controllo di ciò che resta del Movimento, nel tentativo di accreditarsi come leader “duro e puro“ davanti a quell’anima barricadera e cialtrona (“oggi li sfonnamo di brutto. Nun c’è trippa per li gatti”, disse giovedì la vicepresidente del Senato Taverna. La vicepresidente del Senato!) che è tutto ciò che resta del partito che avrebbe dovuto reinventare la politica e affascinò il 32% degli italiani.
Quel partito che ora non sa letteralmente cosa fare, se non frantumarsi in 1000 rivoli, come formiche impazzite alla caccia di un’improbabile salvezza prima dell’Armageddon elettorale.
Si torna, così, al mistero dei misteri: come possa un uomo, che non può non sapere cosa siano la responsabilità e la gravitas del governo di 60 milioni di italiani, prestarsi a tutto questo senza vergognarsi un po’, smetterla subito e dimettersi.
Di Fulvio Giuliani
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