Il Presidente della Repubblica che avvia ora il suo settennato può, fin da subito, escludere che la realtà istituzionale resterà immutata. Si tratterà di vedere quale ruolo svolgerà per evitare che il cambiamento sia sovvertimento.
Sette anni sono lunghi per una persona ma nella vita istituzionale sono, normalmente, un tempo trascurabile, mentre in quella politica vanno oltre l’orizzonte distinguibile. Non siamo, però, in condizioni normali e il Presidente della Repubblica che avvia ora il suo settennato può, fin da subito, escludere che la realtà istituzionale resterà immutata. Si tratterà di vedere, quindi, quale ruolo svolgerà per evitare che il cambiamento sia sovvertimento.
Il primo problema che il Presidente dovrà affrontare sarà quello di rendere stabile la maggioranza che lo ha appena eletto, ponendola in continuità con il governo attualmente in carica. Tale compito sarà facilitato se lunedì le forze politiche dimostreranno di avere capito che da una spaccatura dell’attuale maggioranza non uscirebbe nessun vincitore, ma una collettiva perdita di credibilità. In ogni caso gli impegni presi dal governo – nel quale in grande maggioranza si trovano a essere alleati e colleghi – sono pluriennali e immodificabili. Il piano di riforme e le modalità e destinazione degli investimenti, legati all’arrivo dei vitali fondi europei, non potranno essere oggetto di negoziato.
Sono impegni presi. Chiunque li metta in dubbio non farà che diroccare la credibilità dell’Italia. Quindi il Presidente si troverà a svolgere il delicato e nuovo compito di verificare che i futuri governi si propongano di agire – ed effettivamente lo facciano – per quelle materie, in uniformità e continuità. Il significato e le conseguenze di questa esigenza assegnano al Quirinale una funzione non di governo, ma sicuramente di più stringente controllo.
C’è poi un secondo problema, che nasce da una certezza: il Presidente, nel corso del suo mandato, al termine della legislatura, assisterà a una modifica strutturale dell’istituzione parlamentare, innescata dall’entrata in vigore della riforma costituzionale che ne taglia la composizione. Da una parte questo favorisce la stabilità, visto che la grande parte dei parlamentari ha la certezza di non potere essere rieletta, sicché è e sarà contraria allo scioglimento.
Ma vale solo nell’immediato. Dall’altra apre problemi nuovi. Per dirne uno, gigantesco: il successore dell’attuale Presidente non sarà più eletto dal collegio voluto dai Costituenti, ma da un nuovo equilibrio in cui peseranno assai di più i delegati regionali. Una cosa insensata, frutto della dabbenaggine con cui si è proceduto. Ciò porta al secondo fronte: dal Colle si dovrà favorire e accompagnare una stagione di riforme costituzionali, come minimo per mettere in coerenza quelle già fatte con il resto della Carta.
Il che riporta al punto di partenza: preservare una maggioranza ampia. Qualcuno ha fatto correre un po’ troppo la fantasia, strologando – a seconda di chi sarà eletto – di una specie di Repubblica presidenziale di fatto. Sono cose che neanche si dovrebbero sentire. La distanza fra la Costituzione scritta e quella vissuta è fatta di prassi e costume, non di norme e poteri che, altrimenti, sarebbero incostituzionali. Nessuna Costituzione è immodificabile, benché sia perverso pensare che siano continuamente manipolabili, ma nessuna Costituzione può neanche essere modificata di fatto senza perdere il significato stesso della propria esistenza.
Dal Quirinale non si governa e non si comanda sui governi. Chiunque ci si trovi. E se ci si trova qualcuno che crede di poterlo fare, vuol dire che si è eletto un soggetto pericoloso. Parlare male della classe politica è la cosa più semplice e inutile che ci sia. Solitamente lo si fa dimenticando che è quella eletta, in qualche modo specchio del Paese. Ma la stoffa di un mondo politico, nel suo insieme, non si distingue alla luce di simpatie e antipatie ma misurandone la trama e la tenuta in occasione delle scelte più importanti. Da lunedì vedremo quale tessuto sarà messo in mostra.
di Davide Giacalone
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