Il trappolone di Macron
Il vertice all’Eliseo di ieri voluto dalla Francia di Macron non è stato digerito da Giorgia Meloni, che non l’ha mandata a dire. Il provincialismo italiano, poi, ha fatto il resto
| Politica
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Il vertice all’Eliseo di ieri voluto dalla Francia di Macron non è stato digerito da Giorgia Meloni, che non l’ha mandata a dire. Il provincialismo italiano, poi, ha fatto il resto
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Il vertice all’Eliseo di ieri voluto dalla Francia di Macron non è stato digerito da Giorgia Meloni, che non l’ha mandata a dire. Il provincialismo italiano, poi, ha fatto il resto
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Il vertice all’Eliseo di ieri voluto dalla Francia di Macron non è stato digerito da Giorgia Meloni, che non l’ha mandata a dire. Il provincialismo italiano, poi, ha fatto il resto
È un’Italia provinciale, quella che ieri si è spaccata lungo la faglia della furia di Giorgia Meloni contro il presidente francese Emmanuel Macron. La presidente del Consiglio non ha digerito – non senza più di qualche ragione – il vertice organizzato all’Eliseo dal presidente francese, alla vigilia della storica presenza di Volodomyr Zelensky al Consiglio europeo di Bruxelles.
Una scelta azzardata, dalle evidenti motivazioni di carattere interno transalpine, con cui Macron ha voluto sottolineare il ruolo della Francia. Quasi costringendo la Germania a seguirlo su una strada ricca di rischi politici. Manifestare platealmente, però, la contrarietà di Roma non ha giovato a Giorgia Meloni, che è finita per apparire in un angolo – quasi fisicamente isolata – lì dove avrebbe avuto tutto l’interesse a lavorare sotto traccia con altri partner e con i vertici delle istituzioni comunitarie e lasciare Macron solo con il cerino del suon azzardo. Più freddezza sarebbe stata molto utile, per farla breve, invece di aggiungere pepe a un rapporto già estremamente complesso. Con il risultato di aver consentito all’Eliseo anche l’inelegante risposta sulla “Francia e Germania che hanno un ruolo particolare“.
Il provincialismo di casa nostra ha fatto il resto, con le opposizioni all’attacco, ripetendo la vecchia storia dell’inadeguatezza della presidente del Consiglio sul proscenio internazionale. Esattamente quello che sarebbe accaduto a parti invertite, se a essere escluso da un vertice fosse stato un premier di centrosinistra. Come se prima di Mario Draghi si fossero susseguiti solo epigoni di Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt a Palazzo Chigi.
La verità è che tante, troppe volte abbiamo litigato per una sedia, uno strapuntino, per mostrare (a noi stessi?) di contare a livello internazionale, a cominciare proprio dal fastidioso rapporto esclusivo Parigi-Berlino. Non è necessario richiamare l’ex presidente della Bce, il suo carisma, la capacità di tracciare la strada all’intera Unione per marcare differenze con chi è venuto dopo. Sono nell’ordine delle cose e non è una prerogativa della destra: ci vuole tempo, accumulare esperienza, consuetudini, contatti e rapporti.
Nulla di sorprendente o drammatico, nulla che sia precluso a Giorgia Meloni. Sapendo, però, che gli errori hanno un costo, che il governo e in particolare la politica estera in tempi difficili e drammatici sono di quanto più complesso possa capitare a un leader. Prendiamo in prestito le bellissime parole pronunciate ieri sera sul palco del Festival di Sanremo dall’azzurra Paola Egonu: “La palla, quella che scotta, è il motivo per cui sono lì”. E la palla non va sempre schiacciata.
di Fulvio Giuliani
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