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Impopolare

È necessario avere il coraggio della popolarità, non differente dall’avere quello dell’impopolarità. L’idea che hanno i demagoghi del popolo è rivolta solo al loro tornaconto presente; in tal modo non rischiano l’impopolarità ma tradiscono il popolo.
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Occorre avere il coraggio della popolarità. Che non è diverso dall’avere quello dell’impopolarità.

I demagoghi hanno un’idea plebea del popolo, ne cercano il consenso aizzandone le paure e accarezzandone le pretese, badando non al futuro collettivo ma al loro tornaconto presente. Così procedendo essi non rischiano l’impopolarità, ma anche tradiscono la popolarità, tradiscono il popolo, volendolo solo infante plaudente e capriccioso.

Il coraggio della popolarità è ben altra cosa, richiedendo la capacità di avere un’idea di società, studiare gli strumenti più adatti per raggiungerla, spiegandone ragioni e condizioni. Il demagogo è un pessimo padre, che disonora e deruba i figli. Non per questo è da preferire il paternalismo di chi provvede (o pensa di provvedere) per gli altri, lasciandoli in uno stato di irredimibile inferiorità.

Meglio la meravigliosa e imbattibile imperfezione della democrazia: perché il necessario sia anche utile, occorre che almeno la maggioranza si convinca che sia giusto sebbene, magari nell’immediato, sgradevole. Questo il compito della politica, naturalmente coltivando idee diverse circa gli approdi ideali. Quando Mario Draghi, ricordando Beniamino Andreatta, afferma che le decisioni necessarie vanno prese e difese, anche se impopolari, dice una cosa ovvia.

Chi mai gioisce per il dovere cavare un dente? Ma sapendo che è necessario, per evitare dolori e infezioni ulteriori e riconquistare il benessere, razionalmente affronta il passeggero supplizio. Supporre che glielo si possa togliere solo mentendogli, perché se avvertito preferirà morire a causa di un ascesso, significa supporre che quel soggetto abbia i denti ma non il cervello.

Di questo sono convinti i demagoghi: che il popolo non abbia cervello, solo istinti. Il concetto di ‘popolo’ non ha confini di ceto o funzione. Quando, all’inizio degli anni Cinquanta, il ministro per il Commercio estero Ugo La Malfa volle liberalizzare gli scambi, ovvero abbattere le protezioni doganali, la Confindustria di Angelo Costa lo accusò di star distruggendo l’industria italiana, svendendola agli stranieri. Avvenne l’esatto opposto e fu innescato il boom economico. Si può dire che ebbe il coraggio dell’impopolarità altolocata, ma anche che ebbe quello della popolarità, perché crebbero (non solo per quello) la ricchezza e il benessere collettivi.

Non c’è solo la politica, però. Se chi dirige un’azienda è premiato con i risultati economici a fine anno è probabile che, per inseguire il proprio legittimo guadagno, non si impegnerà a lavorare per il futuro dell’azienda, ma solo per i numeri del prossimo bilancio, da cui dipendono i suoi quattrini. Così procedendo si abita la democrazia e il mercato, ma li si confinano nei tempi corti, nelle visioni brevi, nei risultati immediati. Impoverendoli. Saranno ricordati solo i protagonisti capaci di rompere questi vincoli, mentre gli altri saranno anche di successo, ma resteranno comparse storicamente irrilevanti, incapaci di creare ma abili nel galleggiare.

Il nostro guaio è avere lungamente insegnato che ci si può arricchire senza creare ricchezza, così generando elettori che chiedono rendite finanziate dalla spesa pubblica e classe politica specialista nel far credere sia un diritto consumare più di quel che si produce. Farla finita con quest’andazzo è un dovere. Anche morale. Il cagnaccio che ringhia nel fare la guardia non è un cattivone, ma uno che fa il suo dovere. Se preferite fatevi difendere da un’oca. E già che ci siete mettete, come si mise, sua sorella a governare.

 

di Davide Giacalone

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