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La Marcia su Roma contro la libertà

La Marcia su Roma contro la libertà

28 ottobre 1922, data storica della Marcia su Roma delle camicie nere: l’estetica del fallimento della borghesia liberale.
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28 ottobre 1922, data storica della Marcia su Roma delle camicie nere: l’estetica del fallimento della borghesia liberale.
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28 ottobre 1922, data storica della Marcia su Roma delle camicie nere: l’estetica del fallimento della borghesia liberale.
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28 ottobre 1922, data storica della Marcia su Roma delle camicie nere: l’estetica del fallimento della borghesia liberale.
La Marcia su Roma delle camicie nere del 28 ottobre 1922 (Mussolini arriverà in wagon-lit la mattina del 30) fu l’estetica del fallimento della borghesia liberale. A promuovere quella marcia, un padronato greve: quello che, dopo la pomposa e pompata adunata di San Sepolcro di tre anni prima, foraggerà il movimento mussoliniano come reazione preventiva all’avanzata delle sinistre (di cui una parte consistente sosteneva scriteriatamente che si potesse «fare come in Russia»). La favoletta di San Sepolcro – con un manifesto che univa confusamente nazionalismo, sindacalismo rivoluzionario, futurismo e quant’altro – era rimasta lì, in quella sala che aveva ospitato nemmeno un centinaio di sbandati, rancorosi, delusi, frustrati, esagitati di vario genere e natura. Analizzare la resistibile ascesa di Benito Mussolini significa cifrare la politica del fascismo: se cioè concedergli un portato (inizialmente) rivoluzionario o liquidarlo tout court in una dimensione reazionaria. La sgangherata masnada eversiva che trotterellò su Roma come i legionari dannunziani su Fiume solo tre anni prima (e sei mesi dopo San Sepolcro) sarebbe stata disperdibile con quattro cannonate (le stesse che avevano chiuso la Reggenza del Carnaro). Ma poi, in quell’ottobre tumultuoso del 1922, che fare? L’inetto Facta («uno dei maggiori idioti di tutti i tempi», Salvemini dixit) non sarebbe stato in grado di rispondere: diventò così l’ultimo presidente del Consiglio dello Stato liberale. Suo successore, un «capo del governo» (come preferì chiamarsi Mussolini) responsabile di una dittatura, del sodalizio con Hitler fino a condividerne le leggi razziste, dell’entrata in guerra. Chiusa la parabola del mussolinismo, ebbe inizio la discussione sul cosa fu il fascismo. Una significativa tendenza storica lo rubrica come un movimento-contro. Contro lo Stato liberale, contro il socialismo, contro la democrazia. Il tutto coerentemente con l’assai zoppicante formazione culturale di quel maestro elementare diventato capo bivaccaro. Storicamente, la figura del duce è tuttavia centrale in quella “guerra civile europea” che produrrà categorie guida del Novecento, a cominciare da quella del fascismo. E dell’antifascismo, i cui tratti fondamentali s’incarnano tuttora in Giacomo Matteotti, rapito e ucciso il 10 giugno 1924. Una storia, quella del segretario del Psu, dalla narrazione fasulla, che vuole Mussolini come mandante per le denunce contro il fascismo fatte da Matteotti alla Camera il 30 maggio precedente. In realtà, al Mussolini non interessava quanto detto, ma quanto sarebbe stato detto l’11 giugno. Si sapeva che Matteotti avrebbe smascherato gli intrallazzi economici con tanto di tangenti petrolifere per i papaveri del fascismo (a cominciare da Arnaldo, fratello del duce). Al pari di sua maestà Vittorio Emanuele III. Pure la corona aveva fatto cassa dall’americana Sinclair Oil. Il 3 gennaio 1925 Mussolini va in Parlamento. Si prende «la responsabilità politica, morale e storica» di tutto, Matteotti compreso. È la rivendicazione della dittatura.   di Pino Casamassima

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