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Mattarella Einaudi

La metamorfosi di Mattarella

Sergio Mattarella può essere accostato a Luigi Einaudi. Personalità diversissime, ma accomunate da un carattere che più riservato non potrebbe essere

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La metamorfosi di Mattarella

Sergio Mattarella può essere accostato a Luigi Einaudi. Personalità diversissime, ma accomunate da un carattere che più riservato non potrebbe essere

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Sergio Mattarella può essere accostato a Luigi Einaudi. Personalità diversissime, ma accomunate da un carattere che più riservato non potrebbe essere

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Sergio Mattarella può essere accostato a Luigi Einaudi. Personalità diversissime, ma accomunate da un carattere che più riservato non potrebbe essere

Sergio Mattarella può essere accostato a Luigi Einaudi. Personalità diversissime, ma accomunate da un carattere che più riservato non potrebbe essere. Con buona pace di Piero Calamandrei, insigne studioso ma a scoppio ritardato, la viva vox constitutionis fu più dello statista liberale che del suo successore Giovanni Gronchi. Ma la riservatezza inganna. Non a caso, lì per lì, quella di Einaudi fu considerata una presidenza notarile.

Ma poi, scaduto il settennato, Einaudi pubblica “Lo scrittoio del presidente”. E tutti si accorsero che fu lui a dare voce alla Legge fondamentale della Repubblica. Fu lui a toccare da buon pianista tutti i tasti del pianoforte costituzionale. Basterà ricordare quelle sue cartuscelle che i ministri, soprattutto i titolari dei dicasteri economici, si trovavano sulla scrivania di buon mattino al loro arrivo in ufficio. Si faceva sentire, eccome. Ma non parlava ai quattro venti. Dopo lo storico balcone di Piazza Venezia, era allergico ai balconi e alle sfilate. Tant’è che non voleva accettare la massima carica dello Stato per quella brutta caduta dal tram che lo aveva reso claudicante. Al che Giulio Andreotti, che gli portava la buona novella della candidatura, lo convinse con l’argomento che si può sfilare anche a bordo di un’auto scoperta.

La moral suasion di marca britannica, ecco il suo segreto. Economista eminente, salvatore della lira come governatore della Banca d’Italia e poi ministro del Bilancio nel IV ministero De Gasperi, dopo l’estromissione dei socialcomunisti, presumo che Einaudi avesse una tale dimestichezza con Walter Bagehot da tenere sul comodino la sua opera più famosa, “The English Constitution”. Un libro che illustra a meraviglia le istituzioni d’oltre Manica ai tempi della regina Vittoria. Una figura poliedrica, quella di Bagehot: banchiere, saggista, direttore ed editorialista di “The Economist”. Orbene, Bagehot scrive che «il sovrano, in una monarchia costituzionale come la nostra, ha tre diritti: essere consultato, incoraggiare e mettere in guardia».

Al pari di Einaudi – a riprova che al carattere non si comanda – anche Mattarella fin dall’inizio ha sussurrato all’orecchio dei governanti, oltre a esercitare con scrupolo le sue delicate funzioni. Ma adesso ha cambiato musica. Parla, parla, parla. Di tutto e su tutto. Non è da lui. I politologi, vil razza dannata, suppongono che la sua sia una reazione a un premierato che non gli piacerebbe neppure dipinto o perché pretenderebbe di sostituirsi a un’opposizione che latita. Conoscendolo dai tempi in cui alla Giunta per il regolamento, il salotto buono di Montecitorio, lui stava alla sinistra del presidente Violante (e dove sennò?) e io alla sua destra (idem come sopra), e studiandolo di continuo, non credo affatto a tali fantasticherie.

Questi presunti retropensieri non sono da lui. Ma, in qualche misura, non è più quello di una volta. Mi ha colpito non la telefonata al padre della Salis – ci stava tutta – ma il suo invito a dare pubblicità alla chiamata. Mettendosi in un cul de sac. Perché, viste le reazioni sopra le righe delle autorità ungheresi agli interventi del nostro governo, non si capisce che cosa potrebbe fare di più Mattarella, se non condannarsi all’impotenza. E qui vengono a fagiolo le prediche inutili, per usare a diverso titolo quelle di Einaudi, di alcuni suoi predecessori. Sandro Pertini, alla sua bella età, pretendeva la rielezione e parlava a ruota libera. Francesco Cossiga passa in un fiat da sardomuto a picconatore. E Giorgio Napolitano, una volta rieletto, bastonava i suoi grandi elettori e urlava e strepitava perché non imboccavano la diritta via delle riforme costituzionali.

Come la moneta, le parole più s’inflazionano e meno valgono. E poi, can che abbaia non morde. Ci pensi, Presidente. E torni a Einaudi.

di Paolo Armaroli

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