La nostalgia del ’68
La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi è l’essenza dello scontro ideologico in atto
La nostalgia del ’68
La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi è l’essenza dello scontro ideologico in atto
La nostalgia del ’68
La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi è l’essenza dello scontro ideologico in atto
La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi è l’essenza dello scontro ideologico in atto
La nostalgia del passato è un sentimento potente, che si accentua con la vecchiaia. Poco male, in fondo. Quando però si fa un lavoro intellettuale – come giornalista, studioso, scrittore – il cocktail nostalgia + vecchiaia può diventare pericoloso. Leggere la realtà di oggi con le lenti di ieri può indebolire la nostra capacità di comprensione dell’oggi.
È quel che mi pare stia capitando a tanti membri della mia generazione, estasiati dal dilagare – in tutto l’Occidente – delle proteste studentesche, specie nelle università. Il vissuto dei cosiddetti baby boomer (nati nel periodo del boom demografico, 1946-1964) si può riassumere così: abbiamo passato anni a denigrare i giovani delle ultime generazioni descrivendoli come fragili, sdraiati, bamboccioni, pigri, disimpegnati ma ora – finalmente – le manifestazioni contro il ‘genocidio’ che Israele sta perpetrando a Gaza mostrano che quella diagnosi è sbagliata. I giovani dell’Occidente sono tornati a essere idealisti, proprio come lo eravamo noi sessantottini quando ci battevamo contro la guerra in Vietnam, lo sfruttamento in fabbrica, il baronato, l’autoritarismo, la repressione et cetera: un caso da manuale di ‘proiezione’, direbbe forse uno psicanalista incaricato di esaminare la mente di noi ex sessantottini.
Il parallelo fra gioventù di oggi e gioventù di ieri non regge però a un’analisi disincantata. Cominciamo dai numeri. Giornali e tv riportano con grande evidenza episodi di contestazione-dissenso-scontro (compresi casi del tutto marginali e minoritari, come l’assalto alle transenne del Salone del libro di sabato scorso), ma quando si va a vedere chi e quanti erano i contestatori si scopre quasi sempre che si trattava di poche centinaia di persone, inclusi adulti infiltrati o giovani chiamati a raccolta da altre regioni. In breve: siamo di due ordini di grandezza (ossia di un fattore 100) al di sotto delle mobilitazioni studentesche del decennio 1967-1977. Quanto al consenso verso le proteste, i pochi sondaggi disponibili rivelano (specie negli Stati Uniti) che il sostegno alle occupazioni delle università è estremamente ridotto e che l’opinione pubblica è molto divisa nell’attribuzione delle responsabilità del conflitto (in un recentissimo sondaggio americano la responsabilità è attribuita dal 34% ad Hamas e solo dal 19% a Netanyahu). Stranamente i media, che fanno sondaggi su tutto, non sembrano nutrire il minimo interesse per quel che pensano i cittadini e in particolare gli altri studenti che non manifestano né partecipano a occupazioni (oltre il 99%).
Ma non sono soltanto i numeri a essere differenti rispetto a quelli degli anni della contestazione. La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi la competizione vittimaria è l’essenza dello scontro ideologico in atto. Che cos’è la ‘competizione vittimaria’, un concetto da tempo all’attenzione di studiosi e filosofi? Fondamentalmente è quel che succede quando entrambe le parti del conflitto hanno ragioni solide e perfettamente visibili per autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi. E utilizzano questa loro condizione per negare l’analoga condizione vissuta dalla parte avversa. Questa doppia o speculare condizione di vittime, nel ’68 semplicemente non c’era. Oggi è il nucleo del conflitto, perché sia i palestinesi sia gli israeliani hanno robuste e incontestabili ragioni per sentirsi vittime. Di qui una conseguenza logica: chi scende in piazza a sostegno di una delle due parti, e lo fa ignorando completamente le ragioni dell’altra, si macchia di disumanità. Disumano è il silenzio senza pietas dei pro Israele sulle sofferenze inflitte ai palestinesi con l’invasione di Gaza, disumano è il silenzio senza pietas dei pro Palestina sulle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre.
Ecco perché vedere nella protesta pro Gaza di oggi una riedizione del più o meno ingenuo (e più o meno fazioso) idealismo di ieri è sostanzialmente errato. Ai tempi del Vietnam non c’erano due ‘vittime assolute’ in competizione fra loro per il sostegno delle opinioni pubbliche. C’era una guerra e si poteva plausibilmente prendere posizione pro o contro l’intervento americano, così come si può ai giorni nostri prendere posizione pro o contro il sostegno all’Ucraina.
Oggi è diverso. Il dramma di entrambi i popoli che si contendono la terra di Palestina è così vasto e profondo che diventa immorale difendere le ragioni dell’uno senza vedere quelle dell’altro. Non è l’idealismo, ma il venir meno di ogni senso di umanità che pervade le manifestazioni che vedono solo vittime innocenti da una parte e solo brutali oppressori dall’altra.
di Luca Ricolfi
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