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La piaga dell’astensione e l’indifferenza

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Lacrime da coccodrillo dei partiti, tutti, sulla piaga dell’astensionismo dilagante nel nostro Paese. Persino nella roccaforte storica come l’Emilia – Romagna

La piaga dell’astensione e l’indifferenza

Lacrime da coccodrillo dei partiti, tutti, sulla piaga dell’astensionismo dilagante nel nostro Paese. Persino nella roccaforte storica come l’Emilia – Romagna

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La piaga dell’astensione e l’indifferenza

Lacrime da coccodrillo dei partiti, tutti, sulla piaga dell’astensionismo dilagante nel nostro Paese. Persino nella roccaforte storica come l’Emilia – Romagna

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Facciamoci una cortesia: non perdiamo tempo con le lacrime di coccodrillo dei partiti e dei leader – tutti, nessuno escluso – sulla piaga dell’astensione. Sono chiacchiere, lacrime insincere o quantomeno indifferenti. A nessuno di lor signori interessa un fico secco di quanti siano andati a votare, stanno lì a compulsare ossessivamente gli zero, guadagnati o persi, si trastullano con il pallottoliere delle vittorie e delle sconfitte, si illudono di ricavare chissà quali epocali indicazioni da consultazioni strettamente locali e amministrative, figlie di candidati, storie, esperienze e prove sul campo del tutto legate al territorio.

Nel frattempo, un avente diritto su due ormai non va più a votare persino in una roccaforte storica dell’affluenza come l’Emilia-Romagna. Parliamo di una Regione che per decenni è stata il faro della partecipazione e, come diceva qualcuno, democrazia è (sarebbe) partecipazione. Se anche lì, in quelle terre di storica e consolidata responsabilità civica il 50% e oltre dei cittadini non ci pensa neppure a recarsi alle urne, c’è da aver paura.

Anche di chi – soprattutto di chi – questo sfacelo l’ha apparecchiato in anni e anni di una politica irresponsabilmente rissosa, volgare e inconcludente. Fatta solo di rabbie e paure.
Dobbiamo poi sorbirci lo spettacolo di presidenti o sindaci eletti con meno di un quarto dei voti atteggiarsi a novelli Giulio Cesare o Winston Churchill, trascinati alla vittoria dal solito zoccolo duro di appartenenza da una parte o dall’altra e da quei pochi che ancora provano un barlume di interesse.

Davanti a un simile spettacolo, che mina alle fondamenta la vitalità della nostra democrazia, ciò che si riesce a opporre sono le solite frasi fatte, gli appelli ipocriti che nessuno ascolta più, sgamati da una vita per quello che sono: parole vuote, di circostanza. Inutili.

Proviamo sconforto, delusione e un pizzico di rabbia civica davanti a tutto questo, perché nel nostro piccolo sono anni e anni che andiamo ripetendo che solleticare le paure o esaltare l’incompetenza, l’approssimazione, mentre si distrugge il merito, la fatica, la passione ci avrebbe portato a tutto questo. Che avessimo ragione lo sappiamo, ma non ci consola neppure un po’, come siamo certi milioni di cittadini a votare vorrebbero andarci se solo ci fosse uno straccio di proposta in cui riconoscersi. In cui sperare.

Ecco, “sperare”. Verbo che abbiamo cancellato dal nostro vocabolario in modo sconsiderato e colpevole, sostituendolo con il sostantivo più pericoloso e dannoso a lungo termine in politica: il cinismo.

Di Fulvio Giuliani

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