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L’autosabotaggio del governo Meloni

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La catastrofe delle nomine europee non è che la punta dell’iceberg di un problema profondo: il governo Meloni è ad un bivio e si sta autosabotando

L’autosabotaggio del governo Meloni

La catastrofe delle nomine europee non è che la punta dell’iceberg di un problema profondo: il governo Meloni è ad un bivio e si sta autosabotando

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L’autosabotaggio del governo Meloni

La catastrofe delle nomine europee non è che la punta dell’iceberg di un problema profondo: il governo Meloni è ad un bivio e si sta autosabotando

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Il governo Meloni si sta sabotando. La catastrofe compiuta nella partita delle nomine europee non è che la punta dell’iceberg: pesano le contraddizioni nella maggioranza, guidata da una presidente del Consiglio intenta a rilanciare il protagonismo internazionale italiano senza aver designato una strategia perseguibile. La conditio sine qua non per ampliare l’influenza all’estero è avere rapporti proficui con Unione europea e Nato, imprescindibili per la tutela della nostra sicurezza. La miopia dimostrata approcciando a entrambe è avvilente: per assecondare le istanze sovraniste di alcune componenti del governo, si è sprecata l’opportunità di giocare un ruolo nella nuova legislatura europea.

Il governo, uscito rafforzato dalle elezioni europee, sarà incomprensibilmente all’opposizione nel Parlamento europeo. L’impoverimento delle relazioni con le istituzioni comunitarie renderà improbabile ottenere sostegno sulla gestione dei dossier sensibili. Tra questi, immigrazione, stabilizzazione dell’Africa ed economia. Da sola l’Italia non avrà la forza di reagire a queste sfide, data l’impossibilità di risolverle con soluzioni demagogiche o populiste, come quelle degli improponibili blocchi navali.

Il tema della stabilizzazione dell’Africa si collega ai rapporti con l’Alleanza Atlantica: senza il suo supporto credere di poter operare nel Continente sarebbe delirante. Al tempo stesso, puntare a ottenere una delega sulla sua gestione senza dimostrare affidabilità è impossibile. Recentemente il governo ha commesso un errore che rischia di compromettere quest’ambizione: dopo aver lottato per promuovere la nomina di un rappresentante per il fronte Sud del Mediterraneo, ha illogicamente attaccato il segretario generale Jens Stoltenberg, reo di aver affidato l’incarico allo spagnolo Javier Colomina piuttosto che a un italiano. L’indignazione mostrata rischia di compromettere le relazioni con il segretario uscente e indispettire gli alleati.

È triste quanto necessario ribadire che Roma non ha le carte in regola per imporre una propria linea all’interno della Nato. Numerose le ragioni: in primis, l’esigua cifra degli investimenti in difesa. Ancora lontana dalla percentuale minima pattuita nell’Alleanza da destinare alle spese militari (ovvero il 2% del Pil), non ha neanche strutturato un piano credibile per raggiungerla negli anni a venire. In secondo luogo, l’indisponibilità dell’opinione pubblica ad accettare l’impegno soprattutto militare dei contingenti all’estero. Per ragioni morali, gli italiani sono restii all’uso della forza e alla proiezione internazionale del Paese. Questa ragione, unita alla compromissione di alcuni esponenti delle istituzioni dovuta alle relazioni intessute con gli autocrati, incrementa la diffidenza dei partner. Da qui la titubanza ad affidarci la tutela dei loro interessi.

Una serie di problemi che si sommano alla situazione incerta dell’economia, indebolita dall’incapacità di investire i fondi pubblici o proiettarsi in un sistema liberale, così come di partorire un piano credibile di riduzione del debito. Relazioni proficue con Bruxelles ci converrebbero per ottenere supporto, una prospettiva oggi inimmaginabile in virtù della politica di isolamento che il Paese sta perseguendo. Il governo è dinanzi al bivio: scegliere tra il riallineamento con i contesti internazionali di cui sarebbe parte integrante e il proseguimento della nefasta strada di marginalizzazione.

di Tommaso Alessandro de Filippo

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