L’industria della bontà
Ong, cooperative e Onlus varie: cosa combinano le industrie della bontà? Viene da chiederselo dopo il doppio scandalo che ha coinvolto la famiglia Soumahoro e le Ong del Qatargate.
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Ong, cooperative e Onlus varie: cosa combinano le industrie della bontà? Viene da chiederselo dopo il doppio scandalo che ha coinvolto la famiglia Soumahoro e le Ong del Qatargate.
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Ong, cooperative e Onlus varie: cosa combinano le industrie della bontà? Viene da chiederselo dopo il doppio scandalo che ha coinvolto la famiglia Soumahoro e le Ong del Qatargate.
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Ong, cooperative e Onlus varie: cosa combinano le industrie della bontà? Viene da chiederselo dopo il doppio scandalo che ha coinvolto la famiglia Soumahoro e le Ong del Qatargate.
Ma che cosa combinano le organizzazioni benefiche, siano esse Ong, cooperative, Onlus varie? Viene da chiederselo dopo il doppio scandalo che ha coinvolto, quasi in simultanea, le cooperative della famiglia di Soumahoro e le Ong del Qatargate. Ma la domanda è sbagliata. Le industrie della bontà fanno il loro mestiere, che è quello di riprodurre e possibilmente espandere sé stesse, come fanno tutte le burocrazie. E a questo scopo si dotano di sponsor e testimonial che svolgono il ruolo che – nelle industrie vere – è svolto dalla pubblicità. Le domande giuste sono altre e riguardano noi stessi.
Prima domanda: su che basi, per tanti anni, la sinistra ha dipinto sé stessa come animata dai più alti ideali e la destra come guidata dalle più basse passioni? Se non vi fosse stato questo racconto, insistito e quasi ossessivo, la caduta di oggi sarebbe meno rovinosa. Perché quel che fa male, al mondo progressista, non sono i fatti in sé – le malversazioni, la corruzione, gli arricchimenti indebiti – ma il contrasto fra le vergini idee e i non sempre casti appetiti. Come del resto succede con la Chiesa, dove i preti pedofili fanno orrore e scandalo proprio perché sono preti, dediti a insegnare a noi peccatori la morale e la virtù.
Ma c’è anche una seconda domanda: perché ci ostiniamo a giudicare le industrie della bontà per le loro intenzioni e non per i loro comportamenti? Perché, per decidere di donare, ci lasciamo guidare dai loro messaggi pubblicitari, commoventi e vagamente ricattatori (se tu non doni, questo bimbo morirà)? Perché non pensiamo mai di analizzarne i bilanci, le fonti di finanziamento, gli stipendi dei dirigenti e consulenti, la quota che va a spese di funzionamento e la quota che va effettivamente in aiuti?
Lo so: perché è noioso. E soprattutto è prosa. A noi piace la poesia. Però la prosa aiuta a capire e a limitare i danni. Se anziché compiacersi di essere stata messa nel board di una Ong, Emma Bonino si fosse annoiata ad andare alle riunioni e a leggerne i bilanci, forse le cose sarebbero andate in modo meno criminale. Se anziché compiacersi di consegnare un premio alla suocera di Soumahoro, Laura Boldrini avesse preteso un rendiconto dettagliato dagli enti che avevano deciso di proclamarla “imprenditrice straniera dell’anno”, forse qualche dubbio avrebbe trovato la strada per emergere.
E qui veniamo al cuore del problema. La realtà è che anche l’attività di premiare è, fondamentalmente, autopromozione. Senza volerlo, l’autodifesa di Laura Boldrini illustra il punto nel modo più chiaro. Quando Valerio Staffelli le consegna il Tapiro d’oro per l’infortunio in cui era cascata, l’ex presidente della Camera risponde: «Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte. La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Con una giuria di questo tipo, chi non si fida?». Già, chi non si fida? Tutti ci fidiamo, ma è qui che sta l’errore. Perché l’impulso che spinge un’associazione a istituire un premio è lo stesso che spinge il politico o la politica a consegnarlo: fare pubblicità a sé stessi. E da questo punto di vista – l’autopromozione – i premiati non sono tutti eguali. Ci sono premiati banali e ci sono premiati sfavillanti. Come ci sono candidati scialbi e candidati luccicanti. Premiare una commercialista svizzera di Varese non è come premiare una signora africana, profuga del Rwanda e paladina degli immigrati. Candidare un avvocato del Nord non è come candidare un bracciante nero del Sud.
E torniamo sempre lì: la poesia e la prosa, il sogno e la realtà. Noi preferiamo la poesia, la prosa ci annoia profondamente. L’idea che quella della bontà sia anche un’industria non ci piace. La fatica di studiarla – con la pazienza e l’attenzione con cui si studia un piano industriale – non abbiamo nessuna intenzione di accollarcela. Preferiamo scegliere in base alla pubblicità. Se siamo individui, dando i nostri soldi a chi è più in grado di scaldare i nostri cuori; se siamo imprese, istituzioni od organizzazioni, sponsorizzando o finanziando le iniziative che più ci danno lustro.
Ma allora non possiamo lamentarci troppo dei Soumahoro e dei parlamentari corrotti di Bruxelles: in un mondo basato sulla pubblicità e sul sentimentalismo, sono normalissimi incidenti di percorso.
di Luca Ricolfi
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