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Macron, Meloni e “la diplomazia della sedia”

Quanto accaduto ieri al Consiglio Ue tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron descrive appieno un antico incubo italiano: essere esclusi dai grandi appuntamenti
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Macron, Meloni e “la diplomazia della sedia”

Quanto accaduto ieri al Consiglio Ue tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron descrive appieno un antico incubo italiano: essere esclusi dai grandi appuntamenti
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Macron, Meloni e “la diplomazia della sedia”

Quanto accaduto ieri al Consiglio Ue tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron descrive appieno un antico incubo italiano: essere esclusi dai grandi appuntamenti
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Quanto accaduto ieri al Consiglio Ue tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron descrive appieno un antico incubo italiano: essere esclusi dai grandi appuntamenti
L’ineguagliato Enzo Jannacci di “Vengo anch’io, no tu no” descrive alla perfezione l’antico incubo della diplomazia e dei governi italiani: essere esclusi dalle stanze, dalle riunioni, dalle cene, dai vertici in cui si definiscono le grandi questioni internazionali. Vizio antico con radici che si arrampicano sino alla fine del XIX secolo e poi alla sciagurata gestione della conferenza di pace di Versailles, successiva al primo conflitto mondiale. È la “diplomazia della sedia”, l’angoscia italica di avere uno scranno – anche uno strapuntino – grazie al quale rivendicare la propria presenza e il proprio peso. Non una leggenda, solo una cruda analisi della realtà e di un provincialismo che non ci ha mai abbandonato del tutto. Premessa necessaria, per arrivare a quanto accaduto in queste ore, con il Consiglio europeo e la visita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Dopo la trionfale tappa londinese, l’invito a Parigi rivoltogli dal presidente francese Emmanuel Macron ha fatto andare su tutte le furie la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha mascherato il fastidio per la mossa francese dietro un appello all’unità europea, che nel suo caso continua a mantenere una qualche strutturale debolezza congenita. Ci siamo così presi l’acido rimbrotto dell’Eliseo, che ha ricordato la «posizione particolare» di Francia e Germania. Game, set, match. È tutto un darsi di gomito fra gli avversari della presidente del Consiglio, sogghignano all’opposizione e nei media a lei più sfavorevoli, perché le è stato riservato ‘soltanto’ un bilaterale. Dalle parti della maggioranza c’è la malcelata ansia di smentire questa lettura, si sottolineano la posizione italiana (non un merito personale di Giorgia Meloni, semmai il suo merito è aver confermato un posizionamento rigidamente atlantista e occidentale del Paese dal primo giorno di questa follia), i nostri aiuti, il peso personale del capo del governo e così andare… Uno spettacolo già visto mille volte, a parti invertite, quando era un capo del governo di centrosinistra a partecipare o meno a determinati incontri. Uno show che apparirebbe ben ridicolo, visto da fuori, se qualcuno vi fosse interessato. Interessa se siamo noi a segnalare goffamente la nostra presenza, come ieri o con la meravigliosa trovata di far ‘valutare’ le parole di Volodymyr Zelensky dal direttore del prime time di RaiUno Coletta. Nessuno, in fin dei conti, ha mai dubitato della fedeltà e affidabilità italiana nel campo occidentale. Da questo punto di vista, a dirla tutta, è stata molto di più la Germania ad avvicinarsi alla Mosca di Putin che un Paese come il nostro, fermo più al folklore di taluni politici. Non amiamo meno l’Italia se ne ricordiamo la caratura internazionale di media potenza regionale. In condizioni standard, siamo una grande forza economica ma non altrettanto un protagonista politico. Allo stesso modo, non significa tifare per nessuno ricordare come durante i 17 mesi del governo di Mario Draghi il prestigio italiano sia oggettivamente cresciuto a velocità esponenziale. Resta l’iconografia del viaggio in treno dell’ex presidente della Bce – con Macron e Scholz – verso Kiev in guerra, ma molto più la sostanza di un progetto politico europeo nei confronti dell’Ucraina che è stato pensato e illustrato prima di ogni altro proprio da Mario Draghi. È una questione di preparazione, formazione culturale e professionale, esperienza sul campo. Ricordarlo, sottolineare le differenze, non significa criticare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni o lasciarsi andare a semplificazioni ridicole sulla diffidenza nei suoi confronti. È la realtà l’obiettivo a cui tendere nell’interesse dell’Italia, non del leader di una parte. Resteremo un grande Paese anche così, ma si può dare di più. Come si dice a Sanremo, arena molto più familiare ai nostri politici dei grandi consessi internazionali. di Fulvio Giuliani

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