Giorgia Meloni e la formula del Giano bifronte
La formula del Giano Bifronte, inventata dal mostro sacro di Enrico Berlinguer, non portò fortuna neanche al suo ideatore. Ci riprova Giorgia Meloni: essere di lotta e di governo stando al governo.
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Giorgia Meloni e la formula del Giano bifronte
La formula del Giano Bifronte, inventata dal mostro sacro di Enrico Berlinguer, non portò fortuna neanche al suo ideatore. Ci riprova Giorgia Meloni: essere di lotta e di governo stando al governo.
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Giorgia Meloni e la formula del Giano bifronte
La formula del Giano Bifronte, inventata dal mostro sacro di Enrico Berlinguer, non portò fortuna neanche al suo ideatore. Ci riprova Giorgia Meloni: essere di lotta e di governo stando al governo.
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La formula del Giano Bifronte, inventata dal mostro sacro di Enrico Berlinguer, non portò fortuna neanche al suo ideatore. Ci riprova Giorgia Meloni: essere di lotta e di governo stando al governo.
In fondo la questione è sempre la stessa. E cioè se si possa essere contemporaneamente di lotta e di governo come un Giano bifronte, lucrando ogni volta un’effimera convenienza sull’una o sull’altra faccia. In verità quella formula, inventata da un mostro sacro della Politica (con la p maiuscola, of course) come Enrico Berlinguer, non ha portato molta fortuna. Né all’inventore né a chi ha provato a farla sua, qualunque faccia inalberasse.
Adesso Giorgia Meloni prova un ulteriore salto carpiato sullo stesso registro: essere di lotta e di governo stando al governo. Vuole cioè poter dire all’universo mediatico, all’opinione pubblica che l’ha scelta nelle urne e agli ex camerati ora sistemati sulle poltrone del potere che «Io sono sempre la stessa e mai cambierò». Occhieggiando da Facebook col quadernino in mano, con sulle spalle la zimarra della borgatara di successo che ha scalato – da sola e con un coefficiente di difficoltà altissimo in quanto donna – tutti i gradini fino ad arrivare al cuore della cittadella istituzionale, risoluta a innalzare il vessillo della propria immagine e identità. È così che ha vinto, perché modificare?
Certo, come no. Solo che se cambia il ruolo devono cambiare anche i comportamenti, quelli pubblici e non solo. Altrimenti il mantello diventa stretto e alla fine soffoca. Perciò di lotta e di governo stando al governo è un ossimoro. Peggio: un velleitario maquillage destinato a diventare una maschera horror. Giorgia Meloni ha vinto le elezioni ed è andata a Palazzo Chigi secondo il volere degli elettori. Adesso è il capo del governo, non più e non solo il leader di una formazione politica. Dalla postazione così faticosamente espugnata deve governare. E deve farlo avendo come bussola presente l’interesse nazionale: quello cioè che attiene a tutti gli italiani. Il che non vuol dire stravolgere la propria personalità, che sarebbe non solo impossibile ma anche controproducente. Significa esercitare il potere secondo i vincoli stabiliti dalla Costituzione, che pretende leale collaborazione tra istituzioni. È essenziale che Giorgia lo comprenda, allontanando i fuochi d’artificio della «nobile arte» (D’Alema dixit) del comizio per stare con i piedi per terra e lo sguardo rivolto a dove li mette, così da evitare inciampi.
Vale per lei, vale per il suo partito e per la maggioranza tutta. Anche perché la presidente del Consiglio e chi la contorna non fanno altro che ripetere che dureranno cinque anni. Per cui niente fretta, il tempo c’è. A patto di amministrare la cosa pubblica, non di duellare giorno dopo giorno con avversari in gran parte presunti. Altrimenti si fa la fine di don Chisciotte e dei mulini a vento. Fare come ha fatto Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nonché consigliere tra i più ascoltati dalla Meloni, che ha attaccato la Banca d’Italia per i rilievi mossi sulla manovra economica, non è solo autolesionista: è ridicolo. Con Via Nazionale è indispensabile collaborare, come pure con il Quirinale che sul Pnrr chiede di rispettare gli impegni presi con la Ue.
Quello di Fazzolari, al contrario, è il tipico esempio di voce (rabbiosa) dal sen fuggita, una voce espressione di un segmento di Paese escluso e autoescluso, pronto ad abbaiare ai complotti, ai poteri forti e al loro lato oscuro: tutto pur di non prendersi le responsabilità delle proprie scelte. Una voce da nicchia d’opposizione. Invece la destra di governo, inventata da Gianfranco Fini, costringe a misurarsi con i propri doveri.
L’Italia ha estremo bisogno di un partito conservatore moderno e affidabile: coi risentimenti e i retropensieri non si governa. Al massimo si fa dello stantio vaudeville.
di Carlo Fusi
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