Ieri sera la presidente del consiglio Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron si sono visti – da soli, senza delegazioni e interpreti – per un’ora e 40 minuti nell’albergo di Bruxelles che li ospita entrambi. È oggettivamente il “disgelo“, dopo mesi di incomprensioni anche feroci, in particolar modo per l’incidente diplomatico del vertice con Zelens’kyj e il cancelliere tedesco Scholz, convocato da Macron a Parigi e soprattutto per la questione migranti.
Non sappiamo cosa si siano detti, ma per la durata stessa del colloquio, quello che è filtrato e si può ipotizzare, le considerazioni sono assolutamente positive.
Perché quando ci si parla fra i più alti rappresentati di Paesi dalle decine di interessi comuni il dato non può che essere positivo. Al netto di qualsiasi difficoltà e diffidenza personale.
A proposito dei migranti, tema sul quale Giorgia Meloni si sta spendendo con tutte le forze possibili anche lanciando l’allarme rosso sull’esplosiva situazione tunisina, è bene sempre saper accompagnare alla necessaria lucidità e freddezza un senso di umanità senza il quale siamo persi. Tutti.
Poche ore fa, è emerso un vero e proprio testamento affidato al proprio telefonino da una delle vittime della tragedia di Cutro. Si chiamava Uday Abdel Fattah Aref Ahmed, aveva 27 anni ed era palestinese. Prima di partire da Smirne a bordo di quel barcone che sarebbe andato a schiantarsi a poche decine di metri dalle coste calabresi, ha registrato con il proprio smartphone un video che racconta tantissimo, non solo della propria storia. Molti insensibili e superficiali – per non dire di peggio – farebbero bene ad ascoltare e riascoltare.
Uday parla della sua terra, del suo popolo, delle sofferenze e di un’apparente condanna inappellabile alla fine del futuro: “Tanti familiari, tanti amici sono morti nella guerra in Palestina. Scappiamo dalla guerra, dalla povertà. La vita non si ferma per nessuno, anche se siamo addolorati per le nostre perdite. La vita è breve, amatevi”.
Ancora: “Viviamo con dolore e cerchiamo di andare avanti per cambiare la nostra vita e vivere felici in questa esistenza“.
Parole dolorose, pesanti, riflesso di una tragedia senza fine eppure colme di speranza. Di voglia di vivere. Uday aveva 27 anni e tanti sogni, non merita solo dolore e rimpianto. Merita rispetto: sapeva cosa rischiava e ha compreso di dover lasciare un segno, un ricordo di sè, nel caso fosse andata male.
Eco perché le parole in libertà di tanti improvvisati soloni su storie come queste continueranno a ferirci per lungo tempo.
di Fulvio Giuliani
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