La sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia ha ribaltato le condanne di primo grado assolvendo gli uomini delle istituzioni imputati
La sentenza d’appello che ha ribaltato le condanne di primo grado sulla presunta trattativa Stato-mafia assolve gli uomini delle istituzioni imputati, certo non chiude la storia processuale.
La Procura della Repubblica potrà decidere di far ricorso in Cassazione, ma soprattutto la sentenza di giovedì non può rimarginare la ferita inferta al Paese. È questo l’aspetto su cui vogliamo richiamare la vostra attenzione, nel sottolineare come ormai i danni siano del tutto indipendenti dalla vicenda processuale in sé. Non per la rassicurante frase fatta, secondo la quale «nei processi si stabiliscono le eventuali responsabilità delle singole persone e non si riscrive la storia» (concetto sacrosanto, ma ormai ridotto in Italia a paravento delle peggiori intenzioni di cavalcare la ‘giustizia’).
Perché l’inchiesta sulla trattativa che sarebbe intercorsa fra altissimi rappresentanti delle istituzioni e le cosche mafiose è assurta ormai da tempo allo status di verità inconfutabile. Vive di vita propria.
Il processo è stato presentato alla pubblica opinione non come un dibattimento in cui chiedere l’onere della prova all’accusa, ma come il palcoscenico dove sanzionare un dato di fatto. Presentato come tale da un’infinità di titoloni, soloni, commenti, interviste, testimonianze spacciate per assiomi. Se n’è fatto persino un film, come se una legittima ipotesi accusatoria avesse la stessa rilevanza di fatti storici accertati. Manco fosse l’8 settembre, per intenderci. Fare informazione in questo modo, senza più porsi domande ma esponendo esclusivamente tesi (la buona fede non è sufficiente a sollevare dalle responsabilità), ha generato un mostro.
Un mostro che ha distorto la percezione della realtà di milioni di persone, assecondando il più subdolo dei vecchi luoghi comuni: il potere deve essere marcio per forza. Ripetendo ossessivamente che i potenti X, Y e Z hanno cospirato con i peggiori delinquenti, la fetta di pubblica opinione più incline alle semplificazioni correrà a dar ragione alle narrazioni più assurde, purché rispondenti allo schema che si è ormai impadronito della propria testa. È il titolo della nostra prima pagina di ieri: “Il veleno resta”.
L’assoluzione è faccenda dei singoli imputati, come ciò che avverrà d’ora in avanti nel procedimento penale. I danni alla convivenza civile, allo Stato di diritto e ai suoi cardini – a cominciare dalla presunzione di innocenza – sono di tutti. Che intere carriere politiche e giornalistiche si siano poggiate sul giustizialismo è solo una conseguenza del vero problema: un Paese che si è innamorato della peggiore narrazione di sé.
Non sarà certo la singola assoluzione a poter cambiare questo schema, solo una presa d’atto collettiva. I media devono fare il loro mestiere riscoprendo la serietà, prima ancora della deontologia. Altrimenti, non varrà lamentarsi che milioni di persone si informano – quando va bene – con un paio di tweet. I cittadini, da parte loro, devono ricordarsi di essere persone mature e consapevoli, non cervelli all’ammasso delle mode più improbabili, purché riconoscibili e rassicuranti.
di Fulvio Giuliani
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