Un Governo nato dal fallimento con una legge di bilancio che nessuno sente propria. Il guaio grosso non è che si chieda continuamente la fiducia al Parlamento ma che, a un certo punto, la si ponga al Parlamento.
La scena, sconveniente e imbarazzante, è quella tradizionale. Ma la commedia no, a questo giro ha un significato diverso. Non è la prima volta che un’aula parlamentare si trova ad approvare la legge di bilancio senza poterla discutere e dopo che il governo ha posto la questione di fiducia. Ma occorre distinguere tre diversi contesti.
La normalità istituzionale è oramai una memoria della così detta prima Repubblica: il governo è espressione di una maggioranza formatasi in Parlamento e i partiti sono contenitori di idee e interessi, sicché i secondi prendono maggiormente corpo in Parlamento, con il sostanziale beneplacito dei governanti; siccome, però, il gioco trascende e si corre il rischio che la coalizione si sfasci, ecco che si suona la campanella dell’ultimo giro e si pone la fiducia. A quella normalità – criticabile quanto volete, ma presente in quasi tutti i Parlamenti – s’è sostituito, con il debutto della seconda Repubblica, uno schema diverso: i governi raccontano, mentendo, d’essere espressione diretta del voto popolare – con maggioranze non nate da un negoziato sul programma, ma da una convenienza elettorale – talché la legge di bilancio diventa un assalto delle locuste, che la divorano fin quando ciò non comporta l’autofagia, ovvero la caduta del governo, che si schiva ponendo la fiducia. Con quello schema s’è passati dalle maggioranze pretenziose a quelle fantasiose, che in questa legislatura hanno raggiunto un apice surreale.
La scena conclusasi ieri è diversa: un governo nato dal fallimento politico e parlamentare – con un ruolo sostanzialmente commissariale, vissuto come una necessaria ma odiosa costrizione – presenta una legge di bilancio che nessuno sente propria e cui tutti sanno di non potere attentare; ciò non di meno si presentano modifiche una peggiore dell’altra, per intestarsi la riconoscenza (ammesso esista) di una quale lobby o rendita, il che è dai governanti consentito, ma solo fino a un certo punto, oltre il quale si mette la fiducia.
Posto che in altri Parlamenti non si mette la fiducia sul bilancio perché è scontato che se non lo si approva, così come presentato, il governo cade, quella descritta è la scena, il ParlaPanettone, con cui salutiamo il 2021. Ma ha una conseguenza diretta nel 2022. Perché non è mica possibile che, presi dalla lussuria dell’orgia trasformista, i parlamentari pensino di considerare il governo una specie di corpo estraneo. Né è possibile che il governo riesca a tenere fede agli impegni presi e realizzare la missione assegnata se il caos regna sovrano su una maggioranza tanto vasta quanto devastata dall’assenza di prospettiva politica. Il problema non è mica che fine fa Draghi, ma che fine fa il Parlamento. Il guaio grosso non è che si chieda continuamente la fiducia ‘al’ Parlamento, ma che, a un certo punto, la si ponga ‘sul’ Parlamento.
Provino a pensarci, manducando il panettone.
di Davide Giacalone
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