Bipatto
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L’accordo sul Patto è stato trovato. Ne è soddisfatto il governo italiano, che si annette il geometrico merito d’essersi messo al centro. E ci mancherebbe, fossero questi i problemi. Quello di cui parliamo è il Patto europeo sulla migrazione e sull’asilo, al termine di un negoziato che ha coinvolto i Paesi membri, il Parlamento europeo (che lo voterà in seduta plenaria) e la Commissione europea e che ne fissa i cinque pilastri. In buona sostanza: responsabile resta il Paese di primo approdo; si standardizzano identificazioni e dati biometrici; i Paesi che non accetteranno la distribuzione del carico umano saranno tenuti a un maggiore carico economico.
Fino a qualche settimana addietro era tutto uno sgrugnarsi di rimproveri reciproci e di finte rotture. Noi guardavamo la sostanza, tenevamo in conto la realtà reale e non la narrativa mendace della serie «L’Italia è stata lasciata sola» e ritenevamo l’accordo non soltanto possibile ma a portata di mano. Così è stato e il copione si replica con l’altro Patto, quello economico e intitolato alla stabilità e alla crescita.
Convergere su un Patto europeo è buona cosa, ma non in sé una soluzione. Che le frontiere esterne di ciascun Paese fossero frontiere esterne europee era già assodato, mentre i Paesi governati da sovranisti, a Est, avevano impedito la monetizzazione del rifiuto allo smistamento. Che non è e non sarà automaticamente accoglienza. Ora il Parlamento europeo fa un importante passo in avanti, in accordo con la festante Commissione europea (la cui presidente ha parlato di accordo «storico», e bisognerà che ci si rassegni all’idea che la storia la scrivono i posteri, mentre i contemporanei compiono scelte). Non di meno il problema resta intatto, molti altri proveranno a entrare illegittimamente, i respingimenti resteranno complicati. Ma si è fissata la procedura con cui affrontare il problema. E non è poco.
Analogo ragionamento vale sul lato economico. I debiti alti – il nostro lo è esageratamente – restano tali. Contabilizzare questa o quella spesa (ad esempio i soldi spesi nella difesa) ai fini dell’equilibrio fra Stati non modifica il fatto che i soldi presi in prestito comunque debito rimangono. E se crescente il problema aumenta, anche ove non contestato dalle autorità europee. Ma convergere sui criteri è molto importante perché crea le condizioni dell’argine comune, togliendo terreno ad attacchi speculativi e lasciando attive le difese comuni. Le difficoltà nel rispettare gli accordi – evocate sia dalla presidente del Consiglio che dal ministro dell’Economia – sono reali, ma di gran lunga meno dolorose e pericolose del non avere un Patto attivo.
Ricordato ancora una volta che il Meccanismo europeo di stabilità non c’entra nulla, non c’è alcun nesso e che l’idea di gestire un negoziato ‘a pacchetto’ la si può vendere a qualche elettore sprovveduto ma è priva di fondamento, quindi sottolineato ancora che allungare questo strazio serve soltanto a rendere più dolorosa l’inversione a U che le forze al governo dovranno fare (mi pare che la Lega abbia già trovato la formula: siamo contrari, ma ci rimettiamo a Meloni), il problema italiano è la consapevolezza che non sono reali i conti ancora da approvare. Fra Natale e la fine dell’anno, con puntuale rispetto della tradizione e del palpitante ultimo minuto (ma tanto non succede niente), sarà approvata una legge di bilancio che – nello stabilire in che modo e in che misura sarà ridotto il debito pubblico nel corso del 2024 – parte dall’assunto che la nostra crescita sarà dell’1,2%. Il che è fuori dalla realtà e la Banca d’Italia prevede che cresceremo della metà, lo 0,6%. Quindi saranno votati conti che già si sa dovranno essere rifatti. Quello è il nostro problema, serio.
Il dilemma politico sta da un’altra parte: come praticare scelte sagge, che portano a maggiore integrazione europea, dopo avere lungamente sostenuto il contrario. Ma l’arte delle parole è materia in cui l’eccellenza abbonda, fra le file della politica.
di Davide Giacalone
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