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DisPersi, Direzione PD

Senza riformismo per il Pd non c’è sopravvivenza. La radicalità non sta nelle etichette o nelle fughe in avanti quanto nello sforzo diuturno e incessante di saper individuare dove intervenire e quali passi fare per ottenere i risultati
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DisPersi, Direzione PD

Senza riformismo per il Pd non c’è sopravvivenza. La radicalità non sta nelle etichette o nelle fughe in avanti quanto nello sforzo diuturno e incessante di saper individuare dove intervenire e quali passi fare per ottenere i risultati
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Senza riformismo per il Pd non c’è sopravvivenza. La radicalità non sta nelle etichette o nelle fughe in avanti quanto nello sforzo diuturno e incessante di saper individuare dove intervenire e quali passi fare per ottenere i risultati
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Senza riformismo per il Pd non c’è sopravvivenza. La radicalità non sta nelle etichette o nelle fughe in avanti quanto nello sforzo diuturno e incessante di saper individuare dove intervenire e quali passi fare per ottenere i risultati

Oggi si riunisce la Direzione del Pd: deciderà lo slittamento delle primarie e il no al voto elettronico. Una discussione di tipo procedurale che non affronterà il nodo politico vero che da tempo, e in maniera sempre più pressante, angoscia il Nazareno: come è stato possibile che un partito nato per “unire tutti i riformismi” sia finito a reclamare l’urgenza della “radicalità” (vedi Dario Franceschini) come tratto identitario, fiche per partecipare al gioco. Il fatto che la richiesta di una simile svolta arrivi dopo che il Pd ha smarrito il bonusgovernativo, quello che garantiva indipendentemente dal voto popolare la presenza in dicasteri e ruoli di comando, può in buona parte rispondere alla domanda. Il resto è il solito gioco di nomenclature che si sforzano di capire dove sia meglio posizionarsi e quale candidato alla segreteria sostenere affinché le tradizionali rendite di posizione siano salvaguardate.

La questione di fondo – al tempo stesso identitaria e programmatica – viene insomma lasciata lì, ad aleggiare nell’aria. Questione che ha un precetto preciso: dove sia finita, appunto, la mission riformistica di quello che era il maggior partito della sinistra non solo italiana ma addirittura europea; che fine abbiano fatto le sue parole d’ordine che sottintendevano una visione specifica della società; in quale scantinato siano stati gettati sogni e progetti di quella che si considerava (e in buona misura continua a considerarsi) la parte ‘migliore’ dell’Italia, la più competente, la più moderna. Detto in altri termini, in quale Iperuranio sia stata spedita la voglia, prima ancora della capacità, di fare politica; di farsi carico delle problematiche dei cittadini e trasformarle in prassi e provvedimenti; di coniugare la difesa dei diritti – alcuni sostanziali, altri a uso mediatico – con la salvaguardia delle necessità e urgenze degli italiani.

Anno dopo anno dal momento della fondazione, strumentalità e opportunismo sono diventati due must dell’azione del Pd, sempre con la pretesa e talvolta la supponenza di presupporre le proprie convenienze come la ricetta giusta per risolvere i mali dell’Italia, scambiando il proprio ombelico per l’epicentro dei bisogni degli elettori.

Dopo la batosta del 25 settembre, l’urgenza di cambiare è diventata parossistica. Solo che non si sa in che modo sostanziarla e soprattutto quali bandiere ideali agitare per rimettere in sintonia il Nazareno con il cuore profondo del Paese. La concorrenza sempre più forte di una formazione populista come il M5S ha accentuato lo sbandamento ideologico; la richiesta di voto elettronico per le primarie è solo l’ultimo tassello: quello che, come ha spiegato l’ex presidente Matteo Orfini, trasformerebbe un partito in una pagina Facebook.

Il buco nero del Pd resta il riformismo mancato. Gli anni passati nella stanza dei bottoni hanno reso la dirigenza satolla di prebende a fronte della scarsità di risultati. La connessione politica – e perché no? – anche sentimentale con una società in continua trasformazione, a partire dal pezzo che si è sempre riconosciuto in quel contenitore politico, ha inaridito il pensiero e l’azione “di sinistra”: patrimonio continuamente evocato e via via svuotato.

Senza riformismo per il Pd non c’è sopravvivenza. La radicalità non sta nelle etichette o nelle fughe in avanti quanto nello sforzo diuturno e incessante di saper individuare dove intervenire e quali passi fare per ottenere i risultati. La politica, appunto. In caso contrario la subalternità è un destino ineluttabile. Il terrore del Pd è di fare la fine dei socialisti francesi. Ancor più terrorizzante dovrebbe essere diventare la ruota di scorta delle pulsioni demagogiche.

di Carlo Fusi

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