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Politica

Politica da piagnoni

Il linguaggio comune della politica è quello della lamentazione: un folto manipolo di piagnoni che costruisce le fortune pubblicistiche sull’oblio del vocabolario

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Il linguaggio comune della politica è quello della lamentazione: un folto manipolo di piagnoni che costruisce le fortune pubblicistiche sull’oblio del vocabolario

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Il linguaggio comune della politica è quello della lamentazione: un folto manipolo di piagnoni che costruisce le fortune pubblicistiche sull’oblio del vocabolario

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Il linguaggio comune della politica è quello della lamentazione: un folto manipolo di piagnoni che costruisce le fortune pubblicistiche sull’oblio del vocabolario

Per ognidove sbocciano censurati recensiti, tacitati assai loquaci, celati in mostra, ostracizzati reimbucati. Tutti colpiti dalla congiura del silenzio eppure in perpetuo schiamazzo, tutti subenti il tentativo di sparizione e vocati alla riapparizione. Il linguaggio comune è quello della lamentazione: un folto manipolo piagnone che costruisce le fortune pubblicistiche sull’oblio del vocabolario. Ce n’è per tutti: dalla leader dei conservatori europei che si batte (parole d’ella) contro le «forze della conservazione» al pensoso letterato ricacciato a esprimersi entro le mura di casa, sicché l’eco delle sue parole s’arisente anche presso er barcarolo, l’unico che rema contro corente.

Si sente la destra dire che da molti anni subisce la discriminazione e l’oscuramento mediatico. Si sente la sinistra dire la stessa cosa, a valere per il presente non meno che per il passato. Chi sostiene di essere stato valutato meno di un cane e chi prende il cane pur di rilasciare una dichiarazione su qualche cosa. Eppure si ha l’impressione di averli sempre visti lì, impegnati in una maratona esibizionista fra anime martoriate che puntano a martirizzare la sopportazione altrui. Sono passati governi di destra e di sinistra, di centrodestra e di centrosinistra, di sopra e di sotto, e ogni volta s’è sentito dire: «La stampa è tutta contro di noi». Da ultimo hanno tutti scoperto d’essere contro il mainstream, perché ciascuno vuole per sé la palma d’essere il solo ad avere pensieri non già pensati e che agli altri non vengono, esprimere i quali è in sé momento catartico della libertà. Tanto più che dopo c’è l’apericena. Ma non si contendono solo i vassoi, ingolosenti solo per chi non sa cucinare; si disputano le medesime parole, la citazione dei medesimi autori, componendo i rispettivi altarini con la stessa animosità con cui ci scambiavamo le figurine: ce l’ho, ce l’ho, mi manca.

La rappresentazione del piagnisteo non è soltanto il canone espressivo del politico combattente e dell’intellettuale dibattente, è anche la sola musica di sottofondo ammessa e capace di esprimere commiserazione e disappunto.

Parli di economia? Devi parlare di povertà, di gente che non ce la fa, di disagi crescenti e smottamenti incipienti. Lo fa la destra e lo fa la sinistra, perché pare brutto ricordare che c’è un’Italia che compete e vince, che sa studiare e sa lavorare, che intraprende e rischia; un’Italia che non si autocommisera perché non gliene resta il tempo e ne ha pure poco per seguire il dibattito pubblico.

Parli di Unione europea? E ci mancherebbe: incompiuta, mostriciattolo manchevole, priva di anima politica, incontrastato regno dei burocrati. Non rende ricordare che questa cosuccia così mal messa ha rispettato la sua promessa di pace, ospita il 6% (calante) della popolazione globale, produce il 25% della ricchezza che ogni anno si genera nel mondo e consuma il 50% della spesa pubblica sociale. Il buco del culo del benessere, della libertà, della longevità e della sanità. Un’incompiuta sconclusionata e disarticolata che ha saputo prendere una sola e univoca posizione a fianco dell’Ucraina aggredita. Dire queste cose è veramente contro la mefitica corrente della lagna perpetua. Ma non si trova solidarietà: per quella rivolgersi al reparto martiri privilegiati.

Ho dei timori sul centenario di Giacomo Matteotti. Temo di scoprire che troppi credono di sapere chi sia stato e troppi temono sia troppo ricordato per quel che è stato, ma che i più non abbiano letto una sua riga. Giusto la citazione rituale. Matteotti non lamentò la violenza squadrista, fece di peggio: ne raccontò le ragioni politiche. Non denunciò i brogli per avere qualche seggio in più, ma per chiarire il disegno politico di Mussolini, che agli italiani fu chiaro soltanto dopo il disastro e il disonore collettivo. E voleva descrivere i gerarchi e il loro capo per quel che erano: ladri. Non fece il piagnone, ma l’uomo che non baratta la libertà con un successo. Pagò per gli italiani che non capirono.

Davide Giacalone

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