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Processo

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Salvini sbeffeggiava i Cinquestelle, volendone l’esclusiva del blocco. Ha avuto quella del processo.

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Salvini sbeffeggiava i Cinquestelle, volendone l’esclusiva del blocco. Ha avuto quella del processo.

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Salvini sbeffeggiava i Cinquestelle, volendone l’esclusiva del blocco. Ha avuto quella del processo.

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Salvini sbeffeggiava i Cinquestelle, volendone l’esclusiva del blocco. Ha avuto quella del processo.

Dopo anni passati a puntare il dito contro le devianze politiche della magistratura correntizzata, costantemente protesa a volere pesare nel processo legislativo, ci tocca puntarlo contro le devianze giudiziarie di una politica che entra fallosamente in un processo penale. Difendiamo il medesimo principio e viene offeso il medesimo fondamento dello Stato di diritto. Il risultato è sconfortante, perché anziché essere riusciti nella correzione dell’errore corporativo si è finiti con il provare a pareggiarlo mediante la corruzione del ruolo politico.

Il ritardo di uno sbarco di immigrati – che comunque ci fu, sicché ove mai sia stata difesa del suolo patrio è durata pure poco – si verificò sotto gli occhi di tutti. I soli che ora dicono di non averlo capito sono i pentastellati che condividevano la responsabilità di governo. Ma mentono perché, siccome allora Salvini furoreggiava, provarono a sostenere che il vero merito del blocco – che non ci fu – era loro. Salvini li sbeffeggiava, volendone l’esclusiva. Ha avuto quella del processo.

Essendo un fatto pubblico ciascuno di noi poté e può esprimere la propria opinione, così come può farlo sul fatto che sia in corso un processo penale. E qui siamo al primo punto, che vale per il processo come per le armi all’Ucraina: un ministro della Repubblica e un cittadino qualsiasi hanno pari diritto a dire quel che pensano? Dal punto di vista formale sì, ma un ministro che rivendichi a sé il diritto della sora Cesira e del sor Augusto non sta nobilitando la libertà di tutti: sta svalutando la funzione che svolge. Ma è un dettaglio e qui, oramai, chiunque dice qualsiasi cosa.

L’obbrobrio consiste nel coro di governanti a proposito non del fatto o del processo in sé, ma sulla requisitoria fatta in Aula dal pubblico ministero. Quello non è un dibattito, ma un dibattimento. L’accusa svolge una funzione. Poi si sentiranno le arringhe dei difensori, quindi arriverà la sentenza, che sarà appellabile e non ancora definibile come “giustizia è stata fatta”. Se governanti e legislatori intervengono su una requisitoria il processo cessa d’essere pubblico e il pubblico divora il processo. Passi che qui le parole si sparano al vento, ma qualora – in via del tutto teorica – il giudicante intendesse seguire la via tracciata dall’accusa, potrebbe sentirsi vagamente intimidito. A quel punto il processo perde ogni validità e credibilità, ivi compresa l’ipotesi (che auguro) di assoluzione.

Ero e resto convinto che la contestazione del sequestro di persona non sia convincente. Non c’è ragione per cui non debba scriverlo. Ma nessuno che abbia conservato tracce di senso del diritto e dello Stato pensa di dovere passare al setaccio una requisitoria come anche un’arringa, semmai le motivazioni della sentenza. Requisitoria e arringa vivono soltanto dentro il processo: farne oggetto di pubblica contesa, come anche di esecrazione, ammazza il processo. Quando un avvocato difenderà un conclamato pedofilo, cercando di ridurre il danno per il suo cliente, diranno che è un sudicio schifoso? Roba da matti.

La scena è così triviale da lasciare sullo sfondo la questione più seria e difficile, ovvero il rapporto fra la responsabilità politica e quella penale. Un tema complesso e lo stesso Tony Blair, che prova ad affrontarlo in un suo libro (“On Leadership”), fa cilecca. Ma se si vuol sostenere che la Procura non avrebbe dovuto sostenere l’accusa, si deve ricordare che tocca al legislatore cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale. Che favorisce l’irresponsabilità dell’accusa. Se si vuol dire – come ha fatto il presidente del Senato – che i magistrati interpretano le leggi come pare loro, sarà bene rammentare che capita anche perché sono scritte in modo ipocritamente aggettivato e in pessimo italiano, mentre il ruolo nomofilattico della Cassazione lo si lascia come domanda d’esame e non come garanzia da assicurare.

Sarebbe bene cessi l’inciviltà dei deragliamenti costituzionali, invece s’assiste alla concorrenza nello svellerne i binari.

di Davide Giacalone

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