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Giorgio Napolitano

Provò ad essere re della Repubblica

Napolitano, il primo della storia italiana eletto per un secondo mandato e il primo Capo dello Stato membro del Partito Comunista: dal Pci al socialismo europeo
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Provò ad essere re della Repubblica

Napolitano, il primo della storia italiana eletto per un secondo mandato e il primo Capo dello Stato membro del Partito Comunista: dal Pci al socialismo europeo
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Provò ad essere re della Repubblica

Napolitano, il primo della storia italiana eletto per un secondo mandato e il primo Capo dello Stato membro del Partito Comunista: dal Pci al socialismo europeo
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Napolitano, il primo della storia italiana eletto per un secondo mandato e il primo Capo dello Stato membro del Partito Comunista: dal Pci al socialismo europeo
Giorgio Napolitano s’iscrisse giovanissimo alla corrente “migliorista”, cioè riformista, del Pci. Lui e Giorgio Amendola, ‘o Sicco e ‘o Chiatto nel vernacolo napoletano, facevano coppia fissa. In omaggio al cosiddetto centralismo democratico, il Nostro però si adeguò sovente alle decisioni più controverse del partito. Ma ebbe molto più tardi l’onestà intellettuale di prenderne le distanze. Plaude nel 1956 ai carri armati sovietici che spengono l’insurrezione ungherese. Ma poi comprende le ragioni di quanti, come Antonio Giolitti, lasciarono il Pci per protesta. Enrico Berlinguer, del quale Napolitano è stato uno stretto collaboratore, pretende la testa dell’incolpevole Giovanni Leone. Ma poi, molto tempo dopo, Napolitano dà atto al presidente dimissionario «di un operato corretto e rigoroso». E ancora. Ammette l’amnesia del Pci sulle foibe. Rivisita il Sessantotto, «forza vitale, insieme a schematismi e a furori». E alla vedova Anna scrive che Bettino Craxi «pagò con una durezza senza eguali» le sue responsabilità. Sarà il primo comunista a sbarcare negli Stati Uniti. Deputato dalla seconda legislatura e capogruppo dal 1981 al 1986, deputato europeo, presidente della Camera dal 1992 al 1994, ministro dell’Interno nel primo governo Prodi, senatore a vita nominato nel 2005 dal presidente Ciampi, l’anno dopo Napolitano è eletto alla suprema magistratura dello Stato. Il segretario Fassino puntava su D’Alema, un ‘antipatizzante’ come Renzi. Ma diversi grandi elettori non gli perdonarono il memorabile detto secondo il quale il Pci era un partito circondato da undici virus. Così l’ebbe vinta Napolitano, sostenuto dall’intera sinistra. Non fu una marcia trionfale, perché al quarto scrutinio raggranellò soltanto 543 voti. Ma il suo messaggio d’insediamento del 15 maggio 2006 la dice lunga. Condanna il «clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità». Ed è ecumenico all’ennesima potenza, tanto da citare personaggi che un tempo aveva avversato. Come Antonio Segni, Gaetano Martino, Benedetto Croce, Luigi Einaudi e perfino Alcide De Gasperi, che in caso di vittoria alle elezioni del 18 aprile 1948 Togliatti avrebbe preso a calci nel fondo schiena.
Si ritaglia un ruolo attivo quando afferma: «Considero mio dovere impegnarmi per favorire più pacati confronti tra le forze politiche e più ampie e costruttive convergenze nel Paese». Una sorta di “agenda Napolitano” sulla quale tornerà di continuo. Nomina cinque governi. Sul Prodi 2 (che pendeva più della torre di Pisa) e sul Berlusconi 4 nulla ha potuto perché ‘battezzati’ dal popolo. Ma ci sono le impronte digitali di Napolitano sulle dimissioni del Cavaliere. Ed è stato tutt’altro che un notaio con il gabinetto Monti, da lui stesso partorito, e con i governi Letta e Renzi. Ha nominato tre giudici costituzionali di alto profilo come Paolo Grossi, Marta Cartabia e Giuliano Amato. Mentre ha avuto la mano non altrettanto felice nella nomina dei senatori a vita. Monti prima senatore a vita, subito dopo presidente del Consiglio, poi fondatore e segretario di un partito che gli si è sciolto fra le mani. Abbado, cubano ad honorem, è passato presto a miglior vita. Piano e Rubbia, chi li ha visti a Palazzo Madama? L’unica a tirare la carretta è Elena Cattaneo.
Napolitano non voleva il bis perché la Repubblica non è una monarchia. Ma dopo le candidature effimere di Marini e di Prodi, pregato un po’ da tutte le forze politiche (come accadrà anche a Mattarella) disse di sì. E nel suo messaggio d’insediamento fece vedere i sorci verdi ai grandi elettori. Più usava lo scudiscio e più loro applaudivano in una seduta di Montecitorio di stampo sadomasochistico.
Napolitano è stato un monarca repubblicano. Ha meritato l’appellativo di “re Giorgio” un po’ per la vaga somiglianza con Umberto II, il re di maggio, e un po’ perché la sua è stata una presidenza interventista. Se Pertini abbaiava più che mordere, Napolitano non ha abbaiato certo alla Luna. Ma i suoi reiterati inviti a una calibrata riforma delle istituzioni sono rimasti purtroppo lettera morta. Di Paolo Armaroli

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