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Il referendum va maneggiato con cura

Il referendum è un mezzo delicatissimo: se fosse un prodotto commerciale bisognerebbe scriverci sopra «Maneggiare con cura»

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Il referendum va maneggiato con cura

Il referendum è un mezzo delicatissimo: se fosse un prodotto commerciale bisognerebbe scriverci sopra «Maneggiare con cura»

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Il referendum va maneggiato con cura

Il referendum è un mezzo delicatissimo: se fosse un prodotto commerciale bisognerebbe scriverci sopra «Maneggiare con cura»

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Il referendum è un mezzo delicatissimo: se fosse un prodotto commerciale bisognerebbe scriverci sopra «Maneggiare con cura»

Davide Giacalone ha scritto giustamente che «è orribile la contrapposizione fra la piazza e il Parlamento, fra il popolo e il Palazzo». Il che non vuol dire che il referendum non sia uno strumento democratico previsto dalla Costituzione. Anzi, diverse volte è diventato uno spartiacque a favore delle libertà dei cittadini (divorzio, aborto: che però furono referendum promossi dagli avversari di quelle leggi di civiltà, e mal gliene incolse). Tuttavia si tratta di un mezzo delicatissimo: se fosse un prodotto commerciale bisognerebbe scriverci sopra «Maneggiare con cura». E invece c’è in giro una referendum-mania, una sostituzione della battaglia politico-parlamentare con il ricorso al popolo. Legittimo, ma pericoloso.

Lo scontro referendario andrebbe riservato alle grandi questioni di principio e dunque limitato: se non per legge, almeno grazie al senso di responsabilità dei partiti. L’apice dell’abuso dell’istituto referendario lo raggiunsero diverse volte i radicali di Marco Pannella che però ne facevano una precisa strategia politica, giusta o sbagliata che fosse: in qualche modo c’era del metodo. Qui invece si procede un po’ a caso. Il referendum contro la legge sull’autonomia differenziata approvata dalla maggioranza parlamentare è la prosecuzione delle manifestazioni di piazza con altri mezzi: ma se ogni volta che passa una legge non gradita si facesse ricorso al popolo, cosa succederebbe?

C’è in questa complessa fase della vita della sinistra, sempre in bilico tra estremismo e riformismo, una specie di ritorno a Rousseau attraverso l’evocazione di una ‘volontà generale’ che viene continuamente sollecitata sottovalutando il rischio di ‘stancare’ un elettorato già abbastanza refrattario – lo si è visto alle elezioni europee – a recarsi alle urne. Certo, l’indisponibilità del governo a ogni mediazione vanifica puntualmente un costruttivo confronto parlamentare e da parte loro le opposizioni sentono un vento in poppa che forse andrebbe meglio verificato, sicché il referendum diventa ai loro occhi l’unica strada per mandare a casa Giorgia Meloni. Il problema è che il referendum abrogativo richiede la partecipazione del 50% più uno per essere valido e viene da chiedersi se la sinistra (e stavolta anche Renzi e Calenda) abbiano valutato bene il rischio di un flopregalando un grandioso successo al governo, che probabilmente farà campagna per l’astensionismo.

E che dire poi della Cgil di Maurizio Landini che ha già raccolto mezzo milione di firme per una serie di referendum sul lavoro, materia tipicamente parlamentare, addirittura sul Jobs Act dell’odiata era renziana: un referendum che più che essere abrogativo sembra essere ‘vendicativo’ di una stagione ormai alle spalle. Un regolamento di conti a tempo scaduto. Ma che c’entrano gli italiani?

di Mario Lavia

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