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Rete unica, Stato irretito

Se il governo s’incaponisse a volere la rete unica e italica, si troverebbe in una brutta trappola. Ma può cogliere l’occasione per dire: mi rimetto a regolare
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Rete unica, Stato irretito

Se il governo s’incaponisse a volere la rete unica e italica, si troverebbe in una brutta trappola. Ma può cogliere l’occasione per dire: mi rimetto a regolare
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Rete unica, Stato irretito

Se il governo s’incaponisse a volere la rete unica e italica, si troverebbe in una brutta trappola. Ma può cogliere l’occasione per dire: mi rimetto a regolare
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Se il governo s’incaponisse a volere la rete unica e italica, si troverebbe in una brutta trappola. Ma può cogliere l’occasione per dire: mi rimetto a regolare

Non è una faccenda tecnica, per esperti di telecomunicazioni o gnomi della finanza: riguarda tutti. Al fondo le cose stanno in modo semplice. E per il governo Meloni può essere una grana ma anche un’opportunità.

Il mercato ha sempre bisogno di regole, altrimenti non esiste. L’anarcocapitalismo non è né anarchico né capitalistico: è giungla. Le regole cambiano nel tempo, si aggiornano e cercano di non essere scavalcate dalla tecnologia. Le leggi spettano al legislatore – che sia nazionale o sovranazionale, con accordi fra Stati o Parlamenti sovranazionali – mentre regolamenti e altri atti amministrativi sono di competenza esecutiva, che sia il governo nazionale o altro organo sovranazionale. Diciamo, per semplificare, che le regole sono roba che spetta allo Stato, sebbene latamente inteso. Cosa succede se lo Stato, oltre a fissare le regole, si mette a giocare?

Se per il giocatore pubblico non valgono le regole imposte agli altri, siamo fuori dallo Stato di diritto e in dittatura. Rossa o nera, non cambia. Non è il nostro caso, naturalmente. Lo Stato può giocare, come effettivamente fa, utilizzando società di forma privata ma di cui ha il controllo. Esempi: Eni, Enel, Leonardo e via elencando. In questo caso, se la società è quotata in Borsa, lo Stato è come se dicesse: gestisco questa impresa e se tu privato vuoi partecipare – investendo ma accettando di non prendere mai la guida – sei il benvenuto. Ciascuno è libero di decidere. Certo, un margine d’equivoco rimane, perché chi fissa le regole, garantisce i controlli ed eventualmente, nei tribunali, dirime le controversie è anche diretto protagonista di quelle, sicché il sospetto che la sua mano sia più invadente che invisibile è legittimo. Esempio: la Rai.

Però capita anche, come nel caso di cui ora ci occupiamo, che lo Stato si dedichi a regolare, ma poi cominci a giocare e lo faccia sotto mentite spoglie, finendo pure in minoranza. A quel punto il frammisto di gestire e regolare rischia d’essere uno scomposto gesticolare.

Erano società pubbliche, quotate in Borsa e senza debiti. Erano diventate delle multinazionali: Sip, Italcable e Telespazio, controllate dalla finanziaria Stet, a sua volta parte del mondo Iri. Storia lunga, gloriosa, poi straziante. Andiamo oltre. Si decide, giustamente, di consegnare le società fuse (Telecom Italia, poi Tim) al mercato. Lo Stato esce e fissa le regole. Quelle regole furono violate e lo Stato si girò dall’altra parte. Tanto per ricordare: governo D’Alema e Consob diretta da chi poi divenne parlamentare di quel partito. Società sventrata e depauperata.

Le azioni Tim sono oggi nelle mani di investitori esteri per il 44% e della francese Vivendi per quasi il 24%. La Cassa depositi e prestiti (che non è lo Stato ma è lì per conto del governo) ne possiede quasi il 10%. La società ha debiti per 25 miliardi e il fondo statunitense ne offre 20 per prendersi la rete. Il Consiglio d’amministrazione di Tim deciderà il 24 febbraio e sarebbe saggio acconsentisse, per due ragioni: a. perché rifiutare espone gli amministratori a responsabilità personale; b. perché tanto non conta nulla, visto che poi deciderà il governo. Il quale ha in tasca il golden power, che di dorato ha poco, perché qualora affermasse di volere tenere la rete in mani italiane (essendo ora in mani straniere) gli toccherebbe metterci i 20 miliardi. E non è finita, perché al Cda non hanno preso parte né il presidente di FiberCop, concorrente nella rete, né quello della Cdp, che stava negoziando con Vivendi e, per giunta, è azionista anche di FiberCop. In mezzo alle reti c’è anche Sparkle, che governa quelle internazionali ad alta sensibilità di sicurezza, non solo italiana (c’è anche Israele). Un casotto.

Se il governo s’incaponisse a volere la rete unica e italica, si troverebbe in una brutta trappola. Ma può cogliere l’occasione per dire: mi sono stufato di gesticolare e mi rimetto a regolare, perché l’interesse degli italiani non consiste nell’intestazione delle azioni, ma negli investimenti e funzionamento della rete. Sarebbe un modo per cavarne le gambe e ridare un senso al gioco.

di Davide Giacalone

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