Se credono a quel che dicono si impegnino nella continuità
Se l’unità nazionale è la modalità politica migliore per rimettere in sesto il sistema-Italia, allora i partiti non la devono usare come coperta di Linus delle loro insufficienze. Le coalizioni sono salvifiche, le ammucchiate patologiche.
Se credono a quel che dicono si impegnino nella continuità
Se l’unità nazionale è la modalità politica migliore per rimettere in sesto il sistema-Italia, allora i partiti non la devono usare come coperta di Linus delle loro insufficienze. Le coalizioni sono salvifiche, le ammucchiate patologiche.
Se credono a quel che dicono si impegnino nella continuità
Se l’unità nazionale è la modalità politica migliore per rimettere in sesto il sistema-Italia, allora i partiti non la devono usare come coperta di Linus delle loro insufficienze. Le coalizioni sono salvifiche, le ammucchiate patologiche.
Nel cuore profondo del sistema, celato dalla nebbia degli opportunismi e delle strumentalità, è annidato il paradosso più paradosso di tutti. È l’effetto della dissonanza tra la sostanza della democrazia e la sospensione, causa emergenza, della sua qualità più significativa: la dicotomia maggioranza-opposizione.
L’unità nazionale, stramba quanto si vuole ma determinante, è il prodotto e al tempo stesso l’emblema dell’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi, chiamato dal presidente della Repubblica al capezzale di un equilibrio politico frantumato e inservibile. Quell’unità nazionale è il lascito più significativo di Mattarella e al tempo stesso la cifra politica e pragmatica di SuperMario. Entrambi la rivendicano e la reclamano come antidoto al marasma di un assetto politico che evidenzia solo minoranze. Sia l’uno che l’altro, in decisiva sintonia, la individuano quale scelta migliore per cogliere appieno le opportunità e i vincoli riformistici stabiliti dal Recovery attraverso il Pnrr.
I partiti politici, praticamente tutti, la suggeriscono come strategia migliore per eleggere il nuovo capo dello Stato. Di più: quelli legati nell’unità nazionale la proclamano strada obbligata per arrivare in modo non caotico alla fine della legislatura.
Bene, è giusto. Quando ci sono le emergenze e la casa brucia, la priorità è che tutti si impegnino a spegnere l’incendio, senza differenziazioni o egoismi di sorta. Però poi, inevitabilmente (e fortunatamente) arriva la democrazia. Che in questo caso sono le elezioni politiche del 2023, col rischio che vengano anticipate alla prossima primavera. In quel frangente si produrrà la cesura che porterà alcune formazioni politiche a prevalere e altre a soccombere.
Ma che campagna elettorale si dovrà fare se fino a un attimo prima la stragrande maggioranza è andata a braccetto, e soprattutto che azione di governo bisognerà imbastire se l’unica strada sono le larghe intese? Per non parlare dell’eventualità che il responso delle urne non indichi una maggioranza coesa.
Se l’unità nazionale è la modalità politica migliore per rimettere in sesto il sistema-Italia, allora è obbligatorio che i partiti non la usino come coperta di Linus delle loro insufficienze bensì la issino come vessillo comune. Prima e dopo le elezioni: in questo secondo caso, nel rigoroso rispetto dei ruoli assegnati dai cittadini con il loro voto, mediante l’impegno di chi vince e di chi perde di continuare su quell’asse finché la situazione lo richiederà. In caso contrario, meglio eleggere il capo dello Stato con le forze più coese tra loro e con quelle andare in alleanza al vaglio del voto. Le coalizioni sono salvifiche, le ammucchiate patologiche.
di Carlo Fusi
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