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Mentre Mario Draghi conquista gli Usa, il governo italiano gioca come in un film di Sergio Leone

Soltanto 24 ore dopo l’appello di Draghi a Biden di riaprire il dialogo con Putin, arriva la telefonata tra Washington e Mosca. Un vero capo di un Governo che, nel frattempo, non vuole saperne di costruire una maggioranza seria e coesa.

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Mentre Mario Draghi conquista gli Usa, il governo italiano gioca come in un film di Sergio Leone

Soltanto 24 ore dopo l’appello di Draghi a Biden di riaprire il dialogo con Putin, arriva la telefonata tra Washington e Mosca. Un vero capo di un Governo che, nel frattempo, non vuole saperne di costruire una maggioranza seria e coesa.

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Mentre Mario Draghi conquista gli Usa, il governo italiano gioca come in un film di Sergio Leone

Soltanto 24 ore dopo l’appello di Draghi a Biden di riaprire il dialogo con Putin, arriva la telefonata tra Washington e Mosca. Un vero capo di un Governo che, nel frattempo, non vuole saperne di costruire una maggioranza seria e coesa.

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Soltanto 24 ore dopo l’appello di Draghi a Biden di riaprire il dialogo con Putin, arriva la telefonata tra Washington e Mosca. Un vero capo di un Governo che, nel frattempo, non vuole saperne di costruire una maggioranza seria e coesa.

Una settimana fa Mario Draghi lasciava lo Studio Ovale con il riconoscimento dello status di interlocutore, sia italiano che europeo, di primo livello degli Usa e avendo consegnato, in quella veste, un messaggio chiaro a Joe Biden: parla con la Russia, riprendi il dialogo interrotto con l’invasione ucraina.

Più o meno ventiquattr’ore dopo il segretario alla Difesa statunitense chiamava al telefono l’omologo russo, primo atto diplomatico diretto tra Washington e Mosca.

Forse è azzardato correlare con un nesso di causa ed effetto le due cose. Tuttavia la concomitanza temporale è innegabile e troppo sminuente il derubricarla a semplice coincidenza casuale. Ed è significativo che i media italiani quella correlazione non l’abbiano neppure abbozzata, anche solo per amore dell’iperbole.

Sia come sia, resta che da tempo Roma non aveva un presidente del Consiglio così autorevole e autorevolmente considerato. E magari sarebbe il caso di dare a Cesare quel che è di Cesare, riconoscendo che certe cose solo uno come SuperMario può farle senza apparire supponente o velleitario. Restando nel suo standing: per intenderci senza mai correre il rischio di diventare un “Giuseppi”.

Non solo. Il pressing di Draghi, approvato e accolto dalla Casa Bianca, toglie un succoso alibi a chi da tempo rotea il delicato vessillo pacifista e trattativista a mo’ di randello per annichilire avversari e coscienze democratiche. Gli Usa e la Ue riforniscono Kiev di armi e tecnologie militari per difendere chi è aggredito dall’aggressore e al contempo sviluppano azioni diplomatiche per aprire un negoziato. Sul fronte opposto Putin preferisce usare missili e carri armati, la diplomazia rinviandola a quando i rapporti di forza sul terreno gli saranno favorevoli. Nel frattempo le vittime e gli orrori aumentano.

Ma quale trattativa si può avviare con chi ogni volta accampa dinieghi e alza il muro della sordità? Inoltre varrebbe ricordare che l’Occidente sforzi diplomatici – azzeccati o no è diritto di ciascuno valutare – ne promuove fin da prima dell’invasione russa, ottenendo dalla controparte motivazioni sempre più improbabili, ultima delle quali quella secondo cui sarebbe stata la Nato ad avviare preparativi per aggredire la Russia. Alcuni pacifisti sempre assetati di giulebbe mai spiegano in concreto come dovrebbe articolarsi una concreta proposta di negoziato. Se lasciando territorialmente integra l’Ucraina oppure no; se smembrando la Nato oppure rinforzandola. Per maggiore chiarezza, potrebbero chiedere proprio in queste ore delucidazioni a Helsinki e Stoccolma.

Ma torniamo all’Italia e a Draghi. Di rientro dagli Stati Uniti, il presidente del Consiglio al posto di solidarietà a 360 gradi si ritrova a fare i conti con un governo sempre più figlio di nessuno, dove il gioco preferito nella maggioranza di larghe intese è a differenziarsi per guadagnare qualche (virtuale) punto percentuale in più, neanche fossero sul set di un film di Sergio Leone. Da queste colonne tra i primi abbiamo invitato a fare chiarezza: se ci sono partiti che non vogliono più sostenere Palazzo Chigi lo dichiarino pubblicamente e nel voto parlamentare se ne assumano la responsabilità. Compresa quella di portare il Paese alle elezioni anticipate. In caso contrario, la smettano con un gioco al rimpiattino insensato e venato di irresponsabilità.

Scavando più a fondo, ma forse neppure tanto, emerge il male oscuro che da decenni avvolge l’Italia come un sudario. Quello cioè di essere uno degli Stati più sviluppati al mondo ma privo di una maggioranza – non solo nel Palazzo ma, ed è ancora più grave, nel Paese – riconoscibile, coesa, con un’idea condivisa di futuro. Sarebbe grave. Ma è un dramma.

  di Carlo Fusi

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