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potere tv

TeleSchermo, potere tv

Con la morte di Berlusconi, c’è chi crede che si stia rimettendo in moto la partita per il ‘potere’ televisivo. Nulla di più errato
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TeleSchermo, potere tv

Con la morte di Berlusconi, c’è chi crede che si stia rimettendo in moto la partita per il ‘potere’ televisivo. Nulla di più errato
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Con la morte di Berlusconi, c’è chi crede che si stia rimettendo in moto la partita per il ‘potere’ televisivo. Nulla di più errato
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Con la morte di Berlusconi, c’è chi crede che si stia rimettendo in moto la partita per il ‘potere’ televisivo. Nulla di più errato
Taluno crede che il lutto rimetta in moto la partita per il ‘potere’ televisivo. Naturalmente pensando più alla politica che al mercato. Non c’è nulla di più insidioso del partito preso, che è poi quasi sempre un partito perso: a furia di rimproverare a Silvio Berlusconi l’uso politico del potere televisivo s’è persa la capacità di riconoscere l’uso televisivo del potere di mercato. L’altro mito del colto (alla sprovvista) che strologa di televisione è quello del “tramonto della tv generalista”. Che è un po’ come quello dell’Occidente: imminente e inevitabile da un paio di secoli, sicché destituito di fondamento. Cominciamo da dove tutti credono di sapere qualche cosa: Berlusconi ha usato le sue televisioni per fare politica? Guardate il panorama delle trasmissioni che si suppongono giornalistiche: la colonna sonora che si è sentita non era quella forzitaliota dell’europeismo, della moderazione e dell’ottimismo affluente; la cacofonia andata ossessivamente in onda era l’opposto: ci rovinano, sono tutti dei delinquenti, siamo poveri e andiamo verso il disastro. Non mi pare che i canali Mediaset si siano affannati a ricordare il Berlusconi commosso per gli albanesi che arrivavano naufraghi (quello che esclamava «Ma non vorrete mica ributtarli a mare?!»), semmai è andato in onda qualche miliardo di volte lo spettacolo dell’invasione. Tutta roba che era in armonia con gli estremismi, i nazionalismi e i grillismi. Non soltanto Berlusconi ne era consapevole, come gli altri padri anziani di quell’avventura, ma ti guardava con beneducata commiserazione quando lo facevi osservare. Perché era ovvio, era (è e sarà) la televisione commerciale. La televisione commerciale non educa, semmai diverte, intriga, attira pubblico per poterlo vendere agli inserzionisti. I programmi buoni sono quelli più seguiti e che servono a fare più quattrini. La tv commerciale vende il pubblico a chi prova a vendere qualcosa al pubblico. La Rai di Bernabei aveva ambizioni didattico-educative, quella di Agnes ne pretendeva di monopoliste, mentre la Rai di adesso è una tv commerciale (Berlusconi ha stravinto) finanziata al 50% dal canone, ovvero da una tassa. Nulla da eccepire, salvo che non vorrei pagare la tassa. Chi pensa di sedurre il popolo lottizzando la Rai è patetico. Quella popolare è la tv commerciale, generalista. La sinistra che s’atteggiò a cinefila per contrastare Berlusconi iniziò lì a divenire l’antitesi del popolare. Ma torniamo alla tv. Il digitale ha spezzato quel mercato. I più giovani non si sono mai posti la domanda che per noi era normale: «Cosa c’è questa sera in tv?». Se ne fregano, perché razzolano il digitale. Che non è meno condizionante e talora fuorviante, ma è diverso. E ha una caratteristica tecnica non compresa: toglie valore alle reti di trasmissione esclusivamente televisive, perché se proprio voglio vedere la tv la vedo lo stesso anche senza antenna. Eppure la generalista non è trapassata, perché c’è un vasto pubblico (per età, per pigrizia, per povertà) che ancora si pone quella domanda. E siccome è un mercato che s’impoverisce, seguono a ruota i contenuti – presunti giornalistici compresi – perché la sola cosa che conta non è che la pensino come preferisco, ma che preferiscano seguirmi. Durante un Comitato centrale Togliatti chiese a Pajetta a che punto stesse il Milan; quello lo guardò stupito, visto che non seguiva il calcio; il capo lo apostrofò: non potrai mai dirigere un partito di massa se non sai del Milan. Ricordatevene, ove mai vi chiedano se il tronista scelse con chi amerebbe congiungersi. Perché la zuppa è quella. Ma per far politica non bastano il calcio e il tronista, devi anche studiare e conoscere la realtà. E non ne sei capace se continui a chiedere che un amico tuo che non sta con “quelli di prima” (prima c’eri sempre tu) prenda in mano la Rai e non capisci che, nel frattempo, stanno passando di mano le reti di trasmissione. La partita è quella, non l’amico. di Davide Giacalone

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