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Troiaio acefalo

Le nomine dei magistrati spettano al Csm, le cui decisioni sono insindacabili. Per questo, è folle supporre di addossare al solo Palamara la responsabilità di anni e anni di lottizzazione spartitoria fra correnti politicizzate di magistrati.
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Il Consiglio superiore della magistratura ci metterà una pezza peggio del buco. Ma va sottolineata l’estrema gravità di quel che è accaduto. Un segnale di decomposizione istituzionale che non riguarda il solo mondo degli intrallazzi togati, ma trascina alla rovina l’intera vita collettiva. Proprio in queste ore le forze politiche discutono animatamente e legittimamente – magari vestendo impropriamente i panni delle vestali costituzionali – di equilibri e garanzie, ma non trovano modo di dire una cosa significativa sulla giustizia resa acefala.

Procediamo con ordine, in modo che emerga la sottovalutazione pubblica e politica di quel che accade. Le nomine dei magistrati spettano al Csm, le cui decisioni sono insindacabili. Proprio per questa riserva costituzionale, contenuta nell’articolo 105, è folle supporre di addossare al solo Palamara la responsabilità di anni e anni di lottizzazione spartitoria fra correnti politicizzate di magistrati. Lui ne è stato cerimoniere e profittatore, ma non l’ha inventata e con la sua uscita non è finita. Il Csm che pensi di risolvere la faccenda espellendolo dalla magistratura sarebbe un’accolita d’incoscienti. La politica che lo consentisse un consesso d’insipienti.

Il malcostume fiacca. Capita, così, che nel 2020 il Csm nomini i vertici della Corte di cassazione, vale a dire il livello massimo della giustizia penale e civile. Avverso quelle nomine viene presentato un ricorso al Tribunale amministrativo regionale, da parte di un magistrato che si è ritenuto ingiustamente escluso da quei vertici. Ma come è possibile, se quelle nomine non sono sindacabili? Questo è il punto di disfacimento e delirio, ci arriviamo subito. Il Tar respinge. L’interessato ricorre al Consiglio di Stato, ovvero alla più alta istanza della giustizia amministrativa. E qui avviene l’incredibile: il vertice della giustizia amministrativa decapita il vertice della giustizia civile e penale, il Consiglio di Stato decapita la Corte di cassazione.

Stia calmo chi crede che ciò dimostri quanto la giustizia non guardi in faccia nessuno, perché dimostra solo in quale manicomio viviamo. Nella sentenza si legge: «Ferma l’esclusiva attribuzione al Csm del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale ….», quindi sanno di non potere entrare in una materia come quella, sanno che quella decisione può essere deprecata, non cancellata, ma «… la motivazione posta a fondamento della valutazione si manifesta gravemente lacunosa e irragionevole». Quindi: so di non potere sindacare, ma ti cancello lo stesso perché non sai né ragionare né motivare. E sulla base di che? Del fatto che il Csm, intrallazzando e spartendo, per coprire il tutto con una foglia d’inutile fico, elabora linee guida che, secondo tanta mendace ipocrisia, dovrebbero dimostrare quanto le nomine siano fatte con criteri oggettivi, salvo che poi le vìola.

Una postilla: il giudice relatore ed estensore della sentenza ha passato il concorso quando in commissione c’era il magistrato ricorrente. E così il troiaio è completo.

Per rimediare non basta di certo, come s’appresta a fare il Csm, rinominare i medesimi vertici, nella stessa settimana in cui prenderanno la parola per inaugurare l’anno giudiziario. Rimettere la testa al decapitato non cambia la sua condizione di morto. Serve varare di corsa la riforma del Csm e del suo sistema elettorale, cancellare le correnti e far sì che la discrezionalità delle sue decisioni non sia la copertura dottrinale delle spartizioni. Serve porsi anche il problema dell’espansione irragionevole del diritto amministrativo: perché oramai al Tar si fermano le gare d’appalto, si stabilisce come curare il Covid, si azzera la Cassazione e tanto altro. Con un sistema legislativo e amministrativo che moltiplica atti, carte, regole, editti, non sapendoli scrivere e rinunciando anche a leggerli. Con il risultato che la caccia all’errore, tipica del procedimento amministrativo, diventa un tiro al piccione. A spese del contribuente.

di Davide Giacalone

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