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A novant’anni dalla sua scomparsa, il cuore di Hachikō batte ancora a Shibuya – IL VIDEO

L’8 marzo 1935, un cane bianco di razza Akita esalava il suo ultimo respiro. Il suo nome era Hachikō e per quasi dieci anni si è recato alla stazione ad aspettare il treno del padrone che non avrebbe mai fatto ritorno

 

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Shibuya, 8 aprile 2025. Come ogni anno, centinaia di persone si raccolgono attorno a una statua di bronzo, a ridosso della stazione ferroviaria. Proprio su quel marciapiede di Tokyo, novant’anni fa, l’8 marzo 1935, un cane bianco di razza Akita esalava il suo ultimo respiro. Il suo nome era Hachikō. Per la profonda spiritualità dimostrata durante la sua esistenza, Hachikō è diventato simbolo di perseveranza, fedeltà e amore incondizionato, divenendo parte del culto popolare del Sol Levante. Fino a quando, nel 2009, una pellicola interpretata da Richard Gere – distribuita in oltre venti paesi – ha commosso il mondo intero. L’8 aprile, sotto i fiori di ciliegio in fiore, il Giappone celebra la Giornata nazionale di Hachikō: un cane che per quasi dieci anni si è recato alla stazione ad aspettare il treno del padrone che non avrebbe mai fatto ritorno.

Hachikō nacque il 10 novembre 1923 a Ōdate, una cittadina della prefettura di Akita, nel nord del Giappone. Dopo i primi due mesi di vita il professor Hidesaburō Ueno, docente di agraria presso l’Università Imperiale di Tokyo, lo adottò. Fin dalla più tenera età, ogni mattina Hachikō accompagnava il suo padrone alla stazione di Shibuya, per poi andare a riprenderlo ogni pomeriggio. Tra i due si creò in breve tempo un legame molto profondo.

Il 21 maggio 1925, il professor Ueno ebbe un malore improvviso mentre si trovava all’università e perse la vita a soli 53 anni. Ignaro dell’accaduto, Hachikō quel giorno – puntuale come un orologio svizzero – si recò in stazione. E continuò a farlo ogni giorno per i successivi 9 anni e 9 mesi. Un’attesa interminabile, ostinata e straziante. Fu il personale della stazione a notare per primo quel cane solitario che ogni giorno sembrava aspettare qualcuno. Col tempo, pendolari, commercianti e viaggiatori si abituarono alla sua presenza. Senza conoscerne la storia, si fermavano accanto a lui: chi per porgergli un boccone, chi per una carezza.

Nonostante fosse un Akita – razza notoriamente schiva e riservata – Hachikō sorprendeva per la sua dolcezza. Era mansueto, e nulla nel suo comportamento ricordava quello di un randagio. La sua misteriosa e quotidiana attesa davanti alla stazione attirò anche l’attenzione del giornalista Takeshi Saitō, che decise di indagare. Così, il 4 ottobre 1932, la struggente storia del cane di Shibuya che aspettava invano il suo padrone da più di sette anni fu pubblicata sul quotidiano Asahi Shimbun, uno dei più autorevoli del Giappone.

Quel racconto arrivò al cuore di un intero popolo. Nel 1934, mentre Hachikō era ancora in vita, gli dedicarono una statua in bronzo proprio davanti alla stazione, scolpita da Teru Andō. Di lì a poco cominciarono i pellegrinaggi di scolaresche e viaggiatori che giungevano da ogni angolo del paese per incontrare quella leggenda vivente. L’anno seguente, l’8 marzo 1935, Hachikō venne ritrovato esanime poco distante dal luogo in cui, per quasi dieci anni, aveva atteso il ritorno del suo padrone. Fu lutto nazionale e molti giornali gli dedicarono le prime pagine.

Oggi, il suo corpo imbalsamato è conservato al Museo Nazionale di Natura e Scienza di Tokyo, mentre le sue ossa riposano accanto alla tomba di Ueno, nel cimitero di Aoyama. Quello tra Hachikō e il suo padrone era un legame invisibile e indissolubile che unisce due esseri viventi che si riconoscono e si scelgono, ogni giorno. In un’epoca come la nostra, dove le relazioni vengono martoriate dalla cultura della fretta, il ricordo di questo legame ci pone di fronte a quei bisogni ancestrali che abbiamo accantonato in nome del progresso.

E lo fa senza proferire parola – come sanno fare solo gli animali – con la presenza, lo sguardo, la scelta. Nel campus dell’Università di Tokyo dal 2015 si trova una seconda statua che ritrae Hachikō insieme al professor Ueno. Ora i due si guardano negli occhi, scolpiti nel bronzo in un abbraccio eterno che dopo novant’anni ha finalmente potuto compiersi. Quel gesto immobile e perpetuo fa sperare che certi legami, quando autentici, non abbiano mai fine.

Di Angelo Annese

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