A scuola di fratellanza
Kataryna sorride davanti ai nuovi compagni di classe. Negli ultimi giorni nella stessa scuola, un istituto comprensivo di Napoli, sono arrivati una decina di bambini ucraini. Per loro sono stati raccolti vestiti, medicinali, materiale didattico. È il verbo dell’accoglienza, che è un dovere collettivo.
A scuola di fratellanza
Kataryna sorride davanti ai nuovi compagni di classe. Negli ultimi giorni nella stessa scuola, un istituto comprensivo di Napoli, sono arrivati una decina di bambini ucraini. Per loro sono stati raccolti vestiti, medicinali, materiale didattico. È il verbo dell’accoglienza, che è un dovere collettivo.
A scuola di fratellanza
Kataryna sorride davanti ai nuovi compagni di classe. Negli ultimi giorni nella stessa scuola, un istituto comprensivo di Napoli, sono arrivati una decina di bambini ucraini. Per loro sono stati raccolti vestiti, medicinali, materiale didattico. È il verbo dell’accoglienza, che è un dovere collettivo.
Kataryna sorride davanti ai nuovi compagni di classe. Negli ultimi giorni nella stessa scuola, un istituto comprensivo di Napoli, sono arrivati una decina di bambini ucraini. Per loro sono stati raccolti vestiti, medicinali, materiale didattico. È il verbo dell’accoglienza, che è un dovere collettivo.
Kataryna sorride subito davanti agli entusiasmi collettivi per le sue coloratissime scarpe. È bellissima, occhi azzurri, capelli biondi. Cinque anni a giugno, è stata accolta in una delle aule riservate all’infanzia all’Istituto Comprensivo Miraglia-Sogliano, in uno dei quartieri più popolosi di Napoli.
Un saluto al padre e poi via nei corridoi – tra palloncini gialli e azzurri, regali, foto e sorrisi – stretta alla mamma Oksana, che traduce per tutti: è stata a Napoli per cinque anni. Poi è tornata a Leopoli, a un battito di ciglia dal confine polacco, dove la guerra non si vedeva ma si respirava. Di colpo è cambiato lo scenario: cittadini in fila per armarsi, monasteri divenuti oasi di salvezza dalle bombe. «Siamo scappati. Il rumore delle sirene… L’ansia prodotta dalle sirene era insostenibile» spiega mamma Oksana. Quindi la fuga, l’arrivo di fortuna in Polonia e 30 ore di viaggio in bus per Napoli. Da una settimana vivono a casa di Salvatore, un conoscente del quartiere che negli anni è rimasto in contatto con Oksana: «Ormai sono parte della mia famiglia» spiega. «Ho dato loro le chiavi di casa mia. Per tutto il tempo che occorre». Oksana racconta della sorella maggiore di Kataryna, che ha nove anni e da Napoli segue le lezioni in Dad della sua scuola elementare a Leopoli: «Lei ha capito tutto, conosce il linguaggio della guerra. Invece Kataryna è così piccola…».
All’istituto scolastico napoletano negli ultimi giorni sono arrivati una decina di ucraini. Ne arriveranno altri. Per loro sono stati raccolti vestiti, medicinali, materiale didattico. «Uno sforzo enorme, il nostro quartiere ricco di negozi è stato impoverito dalla pandemia» spiega la preside, Maria Beatrice Mancini. Una delle insegnanti ha aperto le porte della sua classe a un bambino e a sua madre giunti da Krivij Rih, Ucraina meridionale. È il verbo dell’accoglienza, che è un dovere collettivo. Non solo essere solidali, ma costituire un pezzo nell’ingranaggio italiano per reggere l’ondata della guerra portata all’Ucraina. Cioè all’Europa, a noi tutti. Con la consapevolezza che questo ruolo rappresenta uno straordinario momento di crescita e di confronto: per i genitori degli alunni, per il personale scolastico e per gli insegnanti che dovranno seguire con cura l’inserimento sociale dei bambini ucraini. Ai loro compagni di classe verrà invece offerta la preziosa opportunità di muovere un primo, importante passo verso la conoscenza del mondo.
Sono circa cinquemila, secondo i dati dell’Asl, gli ucraini arrivati a Napoli in queste settimane. La comunità ne conta diverse migliaia. Poco più di 700 sono stati sistemati dal Comune tra conventi, associazioni, famiglie. Servono risorse, idee, metodo. Resta l’affanno per procurare un tetto. Nelle scuole sono reclamati i mediatori culturali, un ponte per affacciarsi alla nuova realtà, per ricomporre un ritmo della quotidianità a diverse migliaia di chilometri da casa. Non tutti hanno sorriso come Kataryna.
di Nicola Sellitti
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