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Addio algoritmo, il lavoro si conquista di nuovo parlando

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Le stesse aziende che si sono affidate all’intelligenza artificiale per selezionare i candidati (perché troppo pigre o troppo oberate per leggere i curricula) ora si trovano di fronte candidati generati proprio da intelligenze artificiali

Addio algoritmo, il lavoro si conquista di nuovo parlando

Le stesse aziende che si sono affidate all’intelligenza artificiale per selezionare i candidati (perché troppo pigre o troppo oberate per leggere i curricula) ora si trovano di fronte candidati generati proprio da intelligenze artificiali

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Addio algoritmo, il lavoro si conquista di nuovo parlando

Le stesse aziende che si sono affidate all’intelligenza artificiale per selezionare i candidati (perché troppo pigre o troppo oberate per leggere i curricula) ora si trovano di fronte candidati generati proprio da intelligenze artificiali

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Per anni ci hanno raccontato che la tecnologia ci avrebbe liberati: niente più spostamenti inutili, niente più uffici grigi con moquette tristi, niente più selezionatori che ti fissano mentre sudi sulla sedia. Poi è arrivata l’intelligenza artificiale. E ci ha fregati tutti. La notizia è semplice: i colloqui di lavoro tornano dal vivo. Dopo anni di call su Zoom, Meet e piattaforme dai nomi motivazionali, le aziende si sono accorte che c’è un piccolo problema nei colloqui virtuali: i candidati sono sempre più fake. Letteralmente.

Rispondono alle domande con l’aiuto di ChatGpt, si fanno sostituire da AI addestrate a conversare di problem solving e soft skills, e in alcuni casi non sono neppure loro. C’è chi si è presentato al colloquio con un volto deepfake, una voce clonata e un curriculum vitae più truccato di Boy George ai tempi d’oro. E così molte aziende – fra queste Cisco, McKinsey e Google – hanno deciso di rispolverare l’unica arma efficace rimasta: la realtà. Vogliono vedere se esisti davvero, se hai due gambe, una voce naturale e un minimo di spontaneità non generata da prompt.

Insomma, tornano i colloqui vecchio stile. Con le sedie scomode, le camicie stirate all’ultimo minuto, la stretta di mano maldestra e il panico da ascensore bloccato. Altro che futuro: stiamo tornando al passato per difenderci da un presente troppo smart. Ma attenzione: non è soltanto una questione di competenze gonfiate. In certi casi, dietro il candidato brillante e puntuale che risponde con eleganza a ogni domanda, non c’è nemmeno un singolo essere umano ma, come scoperto da un’indagine dell’Fbi, una rete di truffatori (nordcoreani nel caso specifico) che mirano a ottenere un lavoro remoto solo per incassare lo stipendio e dirottarlo verso qualche regime.

Il paradosso è servito: le stesse aziende che si sono affidate all’intelligenza artificiale per selezionare i candidati (perché troppo pigre o troppo oberate per leggere i curricula) ora si trovano di fronte candidati generati proprio da intelligenze artificiali. Una catena di montaggio dove nessuno è davvero presente, tranne l’algoritmo. E allora giù la maschera. Anche perché, ammettiamolo, è difficile farsi sostituire da una voce AI quando devi affrontare una lavagna bianca con un problema di codifica da risolvere in tempo reale.

Nel frattempo il mercato del lavoro s’interroga: è più disonesto chi imbroglia con l’AI per ottenere un posto o chi pubblica annunci con richieste impossibili a 1.200 (o meno) euro lordi al mese? Perché qui il problema non è soltanto la tecnologia, ma la disfunzione sistemica di un mondo del lavoro che sembra scritto da Kafka e programmato da un recruiter junior su LinkedIn. Secondo un’indagine Gartner, il 6% dei candidati ammette di aver barato. Una cifra bassa, certo. Ma alta abbastanza da seminare il sospetto ovunque. E così, per ogni candidato brillante che arriva puntuale e con le idee chiare, c’è ormai un selezionatore che si chiede: sarà vero o è ChatGpt col vestito buono?

Battute a parte, alla fine l’unica intelligenza davvero richiesta sembra essere quella emotiva. Quella che ti permette di leggere in faccia se uno ha voglia di lavorare o sta solo recitando un prompt ben scritto. Quella che nessun algoritmo, per ora, è in grado di replicare. E quindi rieccoci lì: in sala d’attesa, con il curriculum stampato, il nodo alla cravatta storto e il deodorante messo due volte. Come nel 1998. Ma con un’ansia nuova: non quella di non sembrare bravi abbastanza, ma quella di dover dimostrare di essere veri, in tutti i sensi. Bentornati nel mondo reale. Dove almeno, per ora, la stretta di mano non può essere finta. Forse.

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