Avevo incontrato Adelina in un giorno del 2020. Mi aveva raccontato la sua storia: albanese, a 22 anni era salita su un gommone, nel cuore il miraggio di una vita migliore che poi si era trasformato in incubo: picchiata e obbligata a prostituirsi, dopo quattro anni di orrore aveva fatto la scelta più coraggiosa della sua vita.
Aveva chiamato le forze dell’ordine e fatto arrestare i suoi sfruttatori. Quaranta persone erano finite in manette e lei era diventata un simbolo. Un simbolo senza cittadinanza, però: sui documenti tre x e lo status di apolide. Adelina voleva essere italiana e nel 2019 l’allora ministro degli Interni Salvini le aveva fatto ottenere un permesso di soggiorno speciale.
Poi, il limbo della burocrazia. Alma Sejdini, vero nome di Adelina, nel frattempo si era ammalata di tumore. «Sono un fantasma senza Stato» diceva di sé stessa. Ha prima provato a darsi fuoco, poi si è buttata da un ponte, a Roma. È morta con quelle tre x, da apolide, seppur curata nel modo migliore possibile, come ogni altro in Italia.
La sua è una storia terribile, che riaccende i riflettori su un tema sempre attuale nel nostro Paese: quante persone si trovano nella sua stessa situazione, magari anche senza un dramma del genere alle spalle? Quanti permessi temporanei scadono senza che si decida se quelle persone abbiano diritto o meno alla cittadinanza italiana? Non si può etichettare tutto come mala burocrazia, sono vite. Vite a volte fragili, in ogni caso persone che meritano almeno la dignità di una risposta.
Di Annalisa Grandi
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